Uno degli aspetti interessanti che emergono dalla giurisprudenza (si veda fra le altre cass. pen. 34391/2022) in tema di bancarotta e di reati fiscali, è lo snodo che chiama in causa il Commercialista o Consulente fiscale dell’imprenditore.
Molti imputati infatti, a torto o a ragione, scelgono come strategia difensiva quella di addossare la colpa al detto professionista. Lo fanno, evidentemente, nella speranza che il richiamo al presunto errore contabile del commercialista possa portare ad escludere il dolo in capo all’imputato.
Il caso concreto della sentenza appena sopra citata, ad esempio, è quello del mancato versamento di imposte, grazie a plurime compensazioni risultate poi illegittime, in quanto eseguite con crediti non idonei.
In tale quadro l’imputato si era difeso affermando che l’operazione fiscale in parola era stata ritenuta ammissibile proprio del commercialista, che aveva predisposto i modelli di versamento.
Simili strategie difensive si scontrano molto spesso con sentenze che, nel tentativo di evitare manovre dilatorie o comunque elusive della responsabilità penale, finiscono per enunciare massime di giudizio che mettono a dura prova i principi giuridici della materia penalistica.
Secondo tali pronunce, la responsabilità dell’imputato non è esclusa dall’affidamento degli adempimenti fiscali a un professionista, in quanto sull’imprenditore grava l’obbligo di scegliere un valido consulente e di controllarne l’operato (si veda fra le altre cass. pen. 24297 2015). Un siffatto obbligo porta i giudici a configurare in capo all’imputato una sorta di presunzione in forza della quale si dovrebbe ritenere che il commercialista abbia eseguito i predetti adempimenti seguendo le indicazioni fornite dal titolare dell’impresa. Spetterebbe all’imputato fornire elementi a propria difesa, atti a vincere e ribaltare la detta presunzione (cass. pen. 36870 2020).
A parere di chi scrive, occorre verificare con attenzione la reale portata e la tenuta di questo tipo di argomentazioni, in quanto, in un regime liberale che conosce quale proprio caposaldo la presunzione di innocenza, occorre fare molta attenzione a concepire l’idea di un imputato che sia gravato da una presunzione di colpevolezza, che spetti a lui vincere con prova contraria.
Ciò si rende ancor più necessario alla luce della duplice esigenza di tutelare gli imprenditori onesti e gli stessi commercialisti e, d’altra parte, di esercitare la potestà punitiva senza scorciatoie logiche, operando nel quadro di motivazioni di condanna che siano costituzionalmente corrette.
In linea di principio è da dire che non si può certo addossare all’imprenditore, tratto a giudizio per un reato tipicamente doloso come la bancarotta, la semplice colpa di non aver saputo scegliere un commercialista bravo, né si può presumere che sia stato l’imprenditore a impartire tutte le istruzioni al consulente, quasi che quest’ultimo fosse un mero scrivano.
La strada giusta è invece quella di applicare e valorizzare l’uso delle buone pratiche che dovrebbero accompagnare il quotidiano svolgimento del rapporto consulenziale.
Tali prassi virtuose suggeriscono che le scelte più importanti di carattere contabile, bilancistico e fiscale vengano operate sulla base del criterio del consenso informato, consenso del cui corretto iter formativo entrambe le parti, professionista e imprenditore, devono avere e poter fornire traccia documentale.
Attraverso la prova di tale formazione, il commercialista, ove chiamato in causa dall’imprenditore, potrà dimostrare la correttezza del proprio operato e, nel contempo, i giudici avranno un elemento documentale per poter motivatamente riconoscere l’esimente a quell’imputato che abbia davvero operato in buona fede.
La prova appena richiamata, ovviamente, dovrà essere specifica e puntuale, soprattutto per le operazioni caratterizzate da un certo livello di complessità ed incertezza normativa, evitandosi in ogni caso consensi prestati su mere formule di stile di tipo del tutto generico.
In ultima analisi, anche uno scambio di email, purché puntuale, potrà costituire ai nostri fini prova del consenso informato.
Rimane il problema di giudicare quelle vicende in cui la genesi delle operazioni incriminate non sia rivestita da alcun corredo documentale.
In questi casi la difesa dell’imputato dovrà necessariamente introdurre in modo tempestivo e mirato quanto meno una prova testimoniale atta a giustificare il proprio comportamento fiscale, contabile o bilancistico, nella consapevolezza che la sola enunciazione a discolpa di aver operato secondo le istruzioni del consulente, si rivelerà nella maggior parte dei casi inidonea ad evitare la condanna.
E’ però auspicabile che, in tali casi, i giudici non si limitino a richiamare le presunzioni sopra esemplificate e, invece, forniscano dimostrazione del dolo, che spesso sarà nella forma eventuale, valorizzando in positivo gli elementi indiziari emergenti dal caso concreto.