L’amministratore condannato per frode fiscale deve risarcire i danni alla società

Uno dei casi in cui per il diritto si verifica una netta separazione soggettiva fra la società e il suo amministratore è quello della frode fiscale.

Come è noto, fra una società e il suo amministratore intercorrono delle relazioni che, a seconda dei casi concreti, possono assumere diverse valenze giuridiche.

In alcuni casi la legge parla di immedesimazione organica fra società e legale rappresentante, con ciò volendo intendere il fatto che la persona giuridica, la quale evidentemente non pensa e non parla, compie tali funzioni psichiche e comunicative attraverso la persona fisica dell’amministratore, che ne rappresenta la dimensione organica.

Di conseguenza, ad alcuni fini, lo stato soggettivo dell’amministratore diventa automaticamente lo stato soggettivo rilevante della società. Si pensi alla conclusione di un contratto in cui venga in gioco la condizione di buona fede del contraente.

In altre evenienze la società è chiamata a rispondere, anche in sede penale, verso i terzi danneggiati, del reato posto in essere dai propri esponenti, fra cui può annoverarsi anche l’amministratore.

Così, per esempio, se il responsabile fidi di una banca finanzia una società in stato di decozione, commettendo il reato di bancarotta per operazioni dolose in concorso con l’amministratore, la banca può essere chiamata nel processo penale, ove sarà condannata al risarcimento del danno nei confronti dei creditori insoddisfatti.

Può però accadere che tale rapporto di stretta connessione fra la sorte della società e quella del suo amministratore, si rompa fino a giungere all’evenienza, del tutto opposta alla precedente, in cui sia la stessa società ad intervenire nel processo penale, incardinato contro il suo organo di rappresentanza, per chiedere e ottenere prima di tutto il riconoscimento del ruolo di parte civile e, poi, la condanna al risarcimento del danno.

L’ipotesi appena delineata, a prima vista, può apparire strana. Ci si potrebbe, infatti, legittimamente domandare perché mai un amministratore dovrebbe frodare il fisco, rischiando in proprio una condanna penale, se non nell’interesse della stessa società, la quale, qualora la manovra frodatoria riuscisse, pagherebbe senz’altro meno tasse.

A ben vedere, però, le cose non sono così semplici, perché, se è vero che in caso di frode rimasta nascosta la società pagherà meno tasse, è anche vero che, nel caso contrario, la società rimane esposta a serie conseguenze negative. Prima fra tutte quella del pagamento di pesanti sanzioni amministrative pecuniarie, senza considerare la sottoposizione a sequestro preventivo e il possibile pregiudizio reputazionale.

L’amministratore che inserisce in contabilità fatture per operazioni che potrebbero poi risultare inesistenti – si pensi ad esempio, al caso tutt’altro che infrequente, dell’inesistenza soggettiva o giuridica relativa all’impiego di forza lavoro malamente inquadrata – deve avere quanto meno l’avallo dell’intera compagine sociale.

Tale rilievo non vuole costituire un incentivo a commettere l’illecito penale ma, almeno nei casi dubbi, non può negarsi che il coinvolgimento della compagine sociale può costituire la linea di discrimine rispetto alla possibilità che la società poi chieda il risarcimento del danno al proprio amministratore.

Al contempo, il coinvolgimento dei soci, che per tale appoggio potrebbero essere considerati complici della frode formalmente intitolata all’amministratore, costituirebbe una sorta di salvacondotto in favore dell’amministratore rispetto ad eventuali richieste risarcitorie.

Del resto, rispetto alle complessive conseguenze che la commissione di tale reato comporta per l’amministratore, il versante risarcitorio verso la società non è certo secondario.

Egli, infatti, pur riuscendo a patteggiare la pena, si troverebbe poi a dover fronteggiare pesanti conseguenze pecuniarie, che andrebbero ad aggiungersi all’eventuale confisca per equivalente.

Autore dell’articolo Enrico Leo