Il sequestro e la confisca delle somme giacenti sui rapporti bancari intestati all’imputato possono sopravvivere alla prescrizione del reato

Quando l’obiettivo della difesa è quello di ottenere la svincolo delle somme sequestrate sui conti dell’imputato, puntare sulla prescrizione rischia di essere una strategia processuale inutile.

La linea evolutiva della nostra giurisprudenza penale è, infatti, quella di erodere progressivamente la portata pratica di un istituto da sempre avversato dai giudici: la prescrizione del reato.

Questo è l’approdo della recentissima SS.UU. depositata il 21 luglio 2015, la quale aggiunge una seconda statuizione, di non minore importanza: quando ci si riferisce a denaro giacente su rapporti intestati all’imputato, si può procedere al sequestro e alla confisca in modo diretto, fino all’ammontare del prezzo o del profitto del reato, senza dover prima verificare che tali somme siano proprio quelle provenienti dal delitto. Tutto ciò è reso possibile dalla natura del denaro, bene fungibile per eccellenza.

Quanto alla prima questione, è da dire che la Corte ha potuto superare lo sbarramento della prescrizione richiamando la natura della confisca del prezzo o profitto del reato.

Si tratta della cosiddetta confisca diretta, la quale si distingue da quella per equivalente in ragione del fatto che la seconda – che si rende possibile quando, non potendosi realizzare la prima, si vanno a sequestrare beni nella disponibilità del reo, anche se non direttamente riconducibili al reato – ha natura sanzionatoria. La natura della prima, invece, è correlata alla sua funzione, che è quella di sottrarre all’imputato un bene che, per la sua stretta derivazione dal delitto, è entrato nel suo patrimonio quale effetto di un negozio con causa illecita. In questo caso, perciò, la confisca non integra una pena patrimoniale ma si limita ad annullare un’ acquisizione civilisticamente priva di causa.

Una simile ricostruzione, nel ragionamento dei giudici, permette di superare le obiezioni sollevate dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), secondo la quale, al di là delle etichette giustapposte dal singolo Stato, ciò che conta per verificare se una certa misura appartiene al genus della pena (a contenuto patrimoniale), è la sua sostanza. Se essa comporta non già l’eliminazione di un vantaggio indebito (scopo riparatorio/preventivo) ma l’ablazione di un parte di patrimonio che non sia legata da un nesso di derivazione causale col singolo fatto oggetto del giudizio (scopo punitivo/deterrente), siamo allora nel campo delle pene e, per la sua applicazione, si richiede un accertamento definitivo della responsabilità del soggetto agente secondo i canoni del giusto processo.

Quando, viceversa, la natura della confisca non sia sanzionatoria, è possibile valorizzare l’accertamento giurisdizionale svolto, anche se non culminato nel giudicato formale.

Il termine di paragone più prossimo è quello dell’azione civile di danno inserita nel processo penale: anch’essa rimane valida in caso di prescrizione del reato a patto che vi sia stata quantomeno una sentenza di condanna in primo grado.

Perché la confisca diretta possa sopravvivere alla prescrizione è dunque necessario che ci sia un accertamento completo del fatto e della responsabilità del suo autore, anche se non passato in giudicato. Tale accertamento può essere quello di un primo grado di giudizio ma anche quello, purché esaustivo, compiuto in una fase processuale diversa. In particolare, l’obbligo di immediata declaratoria di una causa di non punibilità, non assorbe quello di pronunciarsi sulla sussistenza degli estremi della confisca in parola.

In conclusione, è possibile confiscare in via definitiva il prezzo o il profitto del reato, anche se, nel corso del processo, sia intervenuta declaratoria di prescrizione. Non è invece possibile farlo se si tratta di sequestro per equivalente.

Con l’aggiunta che, sempre secondo la sentenza in commento, non si tratterà mai di confisca per equivalente, vertendosi sempre in ipotesi di confisca diretta, quando la misura colpisca somme di denaro depositate a nome dell’imputato.

E sarà confisca diretta tanto nel caso di prezzo che di profitto , e, con riferimento a quest’ultimo, sia che il profitto consista in un effettivo accrescimento patrimoniale, sia che rappresenti un risparmio di spesa.

La più importante conseguenza di questo inquadramento è che l’ablazione della somma non è subordinata alla verifica che la stessa provenga direttamente dal delitto per cui si procede, in quanto la particolare natura fungibile del bene-denaro, rende inesigibile la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato. Saranno sequestrabili e confiscabili le somme giacenti su rapporti di pertinenza del reo fino alla concorrenza dell’importo pari al prezzo o profitto di quel reato.

Il che comporta un’indubbia semplificazione, vale a dire l’enucleazione di una confisca di denaro che si comporta come quella per equivalente, quando si tratta di escludere la necessità dell’accertamento di una diretta derivazione delle somme dal reato, e come quella diretta quando si tratta di farla sopravvivere alla prescrizione.

Facile ipotizzare che ben pochi imputati lasceranno somme sui propri conti.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

Professionista sottoposto a giudizio disciplinare per lo stesso fatto che ha formato oggetto di imputazione in sede penale

  Le Sezioni Unite Civili della Cassazione (22/05/2014, n. 11309) ribadiscono e rafforzano la linea interpretativa secondo la quale, in pendenza del giudizio penale, il procedimento disciplinare incardinato contro il professionista per gli stessi fatti deve essere sospeso.

  Tale obbligatorio rapporto di subordinazione risulta rafforzato dall’attuale formulazione dell’art. 653 cod. proc. pen. (introdotta dall’art. 1 della legge 27 marzo 2001, n. 97), il quale prevede l’efficacia di giudicato, nel giudizio disciplinare, della sentenza penale di assoluzione “… quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso”.

  Ne consegue che, in caso di pendenza del procedimento penale, la sospensione non è solo facoltizzata (come, in via generale e cioè per i casi di pendenza di “altro giudizio” non meglio specificato, dispone ad esempio per i commercialisti, l’art. 20, primo comma, del Regolamento del Procedimento Disciplinare attualmente in vigore) ma si impone, in quanto l’esito del procedimento penale ha efficacia diretta sul procedimento disciplinare.

  La norma che gli Organi di disciplina dovranno applicare è l’art. 295 cpc, a mente del quale “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.

  L’effetto sospensivo è destinato ad esaurirsi con il passaggio in giudicato della sentenza penale.

  Anche in considerazione del disposto del comma primo bis del citato articolo 653 cpp, il quale stabilisce, per converso, l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare “…quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”, tutto viene a dipendere dal tenore della contestazione disciplinare.

 Quando la scelta disciplinare si concretizza nel ritenere che l’illecito deontologico risieda (solo) nel fatto che l’iscritto ha commesso un reato, senza che il capo di incolpazione venga connotato da elementi ulteriori e di mera rilevanza extrapenale, si realizza una sorta di abdicazione della giustizia disciplinare, poiché come precisa la Cassazione è l’esistenza stessa del reato a costituire la sostanza dell’ illecito disciplinare.

  In questi casi, come precisa altro e precedente arresto delle Sezioni Unite (09/05/2011, n. 10071), l’azione disciplinare, che ha natura obbligatoria, non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, costituito dal passaggio in giudicato della sentenza penale.

  A ben vedere, ove si volesse condurre tale pensiero alle sue estreme conseguenze, se ne dovrebbe dedurre che, prima di tale giudicato, l’azione disciplinare dovrebbe addirittura essere archiviata, con applicazione, per ciò che riguarda ad esempio i Commercialisti, dell’art. 8 comma prima, lettera c) del  Regolamento del Procedimento Disciplinare.

  Resta solo da aggiungere che il consolidarsi dell’ interpretazione appena citata, viene ad influenzare in modo diretto le norme sui termini di prescrizione dell’azione disciplinare. Infatti, nel caso di fatto che costituisca reato, questa inizia a maturare solo dal verificarsi del presupposto e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale.

Autore Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Processo giudiziario e processo mediatico: quando il giudice scontenta gli spettatori

  Il recente esito dell’udienza preliminare del caso Ragusa, ripropone e avvalora l’opportunità di una riflessione sul tema del processo penale mediatico.

  Si tratta, com’è noto, di un fenomeno che ha assunto dimensioni sempre più ingombranti negli ultimi anni, a seguito dello sviluppo di alcune trasmissioni televisive che, in nome della libertà di informazione ma, in realtà, con preponderante attenzione ai dati di audience, hanno introdotto una mutazione genetica nella cronaca giudiziaria.

  La trasformazione sta nel fatto che, nei casi di maggiore risonanza, l’attività giornalistica non si limita a raccontare gli sviluppi dell’inchiesta o del processo ma, in parte non trascurabile, dà vita ad un processo parallelo.

  Ciò avviene in modo ancor più marcato nella fase delle indagini preliminari, in cui, il procedimento giudiziario, coperto dal segreto, vive solo di indiscrezioni, mentre quello televisivo procede in modo pubblico e, naturalmente, molto più spedito.

 Con il risultato che il cittadino/spettatore, mentre ascolta il racconto (necessariamente frammentario e impreciso) degli atti dell’ inchiesta giudiziaria, vive in diretta lo svolgimento degli atti dell’inchiesta televisiva e, quando la prima inchiesta giunge ad un risultato, questo viene accettato in modo più o meno favorevole a seconda del livello di coincidenza con quello dell’inchiesta televisiva. Chi avesse dei dubbi in proposito potrà dare una rapida occhiata ai post con i quali è stata commentata in rete la decisione del Gup di Pisa, considerata scandalosa e illegittima proprio perché delegittimata dal giudizio diffuso e inappellabile di colpevolezza, che era stato emesso dall’inchiesta televisiva.

  Alcune di queste trasmissioni, al momento della nascita del nuovo corso mediatico, si occupavano di ricerca degli scomparsi. Da lì alla ricerca degli scomparsi presuntivamente oggetto di crimini violenti e, poi, alla ricerca di testimoni, il passo è stato breve.

  Questa fase è stata – e lo è tuttora, nella misura in cui a ciò ci si limiti – di notevole utilità per la capacità di apportare un ausilio ad alcune tipologie di indagini giudiziarie, purchè svolta, beninteso, di concerto con le Procure.

  La fase successiva a cui si sono spinte le trasmissioni in parola, pone invece qualche dubbio di compatibilità con lo svolgimento della funzione giudiziaria.

  Si tratta, invero, di una fase in cui, come si accennava, le redazioni televisive svolgono esse stesse le indagini preliminari.

  Lo fanno attraverso attività di ricerca della prova, ascolto delle persone informate sui fatti, interrogatorio degli indagati, esperimenti giudiziali, consulenze tecniche, attività tutte i cui risultati sono poi messi immediatamente a disposizione dell’universo mondo televisivo.

  E’ bene chiedersi quali danni tutto questo possa arrecare al sistema di amministrazione della giustizia.

  Eccone alcuni, in ordine sparso e senza presunzione di completezza o sistematicità.

   Violazione del segreto di indagine. Il segreto è funzionale alla buona riuscita delle indagini. L’indiscriminata diffusione delle notizie può arrecare pregiudizi anche irreparabili, concedendo al colpevole dei vantaggi conoscitivi che possono pregiudicare l’attività di acquisizione della prova.

  Violazione dei diritti dell’indagato. Basti pensare al fatto che costui, quand’anche solo sospettato, viene subito richiesto di rilasciare una video intervista e, a seguito di tale richiesta, scatta per lui un duplice, alternativo, trabocchetto. Se non vi si sottopone, deve subire le conseguenze di un aggravamento dei sospetti. Se vi si sottopone, rischia di patire l’analisi e il giudizio mediatico di più o meno paludati esperti di comunicazione non verbale e, cosa ancor più grave, rischia che nessuno interrompa la progressione delle domande a fronte di un’ eventuale emersione di indizi di reità. Con l’ulteriore grave conseguenza che le risposte fornite al giornalista televisivo potrebbero essere poi utilizzate come documento nel futuro processo e non invece dichiarate inutilizzabili, come quando assunte dagli organi inquirenti.

  Violazione del principio di uguaglianza. Il principio di uguaglianza, nella sua declinazione di uguaglianza di fronte alla legge, così come di fronte al procedimento e al processo, impone che il giusto processo sia uguale per tutti, senza distinzione fra chi viene attinto dal grande occhio televisivo e chi, per le ragioni più varie, riesce a rimanere coperto dal cono d’ombra. Analogo discorso vale, ovviamente, per le parti offese, le quali subiscono spesso un trattamento differenziato, a seconda che abbiano o meno il patrocinio televisivo.

  Violazione del principio di verginità conoscitiva del giudice. Il codice di procedura penale richiede che il giudicante, all’inizio del processo, sia allo scuro degli atti di indagine. Esso parte dal principio che meno il giudice conosce, meno rischia di essere pregiudicato, nel suo delicato lavoro ricostruttivo e decisorio, da elementi di convincimento che egli non abbia appreso in modo immediato e diretto dalla dinamica probatoria dibattimentale. E’ vero che, in parte, questo principio è destinato a rimanere espressione di una linea tendenziale e non sempre le contingenze consentono il suo integrale rispetto. Pur con tale consapevolezza, non è però possibile legittimare una sistematica, consapevole e piena violazione di tale valore fondante.

  Violazione del contraddittorio processuale, quale metodo di accertamento della verità giudiziaria. Per le stesse ragioni espresse al punto che precede, è necessario che l’imputato e per esso il suo difensore, non sia pregiudicato dalla preesistenza di un “esame televisivo del teste” e possa invece contare sulla corretta dinamica dell’esame e del controesame dibattimentale.

  Il catalogo di violazioni che precede lascia volutamente fuori la lesione del diritto alla riservatezza che, in non poche evenienze fra quelle narrate, risulta perpetrata in modo eccessivo e non proporzionato, in termini di bilanciamento, a quelli che sarebbero stati i fisiologici effetti di un processo giudiziario, libero dall’ingombrante sovrapposizione del processo mediatico.

  Eppure, sembra proprio che lo spettacolo debba andare avanti.

Enrico Leo. Tutti i diritti riservati