Sequestro preventivo di somme sul conto corrente della società per reati commessi dall’amministratore

Com’è noto, in caso di reato commesso dall’esponente di un ente (ad esempio dall’amministratore di una società), se il titolo dell’illecito lo prevede, può essere emesso un provvedimento di sequestro diretto del profitto del reato, da eseguirsi anche presso l’ente medesimo, ove il patrimonio dello stesso abbia tratto beneficio dal reato in parola.
Una delle principali matrici normative di tale fenomeno risiede nell’art. 322-ter del codice penale.
Di tale norma rilevano principalmente i seguenti incisi:
– “…è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”
– “… il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato”
In sostanza, il sistema normativo, nel caso che ci interessa, prevede la confiscabilità (e, dunque, prima ancora, il sequestro) dei beni della società, proprio in quanto persona non estranea al reato.
Problemi specifici sorgono quando il prezzo/profitto, come spesso accade, sia costituito da denaro giacente su rapporto bancario dell’ente.
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Frodi Iva: la prescrizione del reato dopo la sentenza Taricco 2

La Corte di Giustizia UE, sollecitata dalla Corte Costituzionale, ritorna sul tema dei termini di prescrizione delle frodi Iva e precisa meglio i limiti della propria prima pronuncia.

Tale prima sentenza aveva disposto una possibile disapplicazione della normativa italiana sulla prescrizione, in quanto troppo lassista e per questo non idonea a costituire un serio deterrente per quei gravi reati che, sottraendo gettito Iva – imposta destinata a far fronte agli obblighi di contribuzione degli stati membri – danneggiano gli interessi finanziari dell’Unione.

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L’imputato non può più proporre personalmente il ricorso per cassazione. Qualche dubbio sul regime intertemporale

  Com’è noto, nel processo penale, in nome del principio di favore per le impugnazioni, è consentito all’imputato ricorrere contro la condanna anche personalmente, vale a dire con atto a propria firma. Il principio trova ragione nella presunzione di innocenza e nella conseguente volontà di ampliare il più possibile le strade che sono concesse al cittadino per dimostrare la propria.
Ma si sa, in periodi di difficoltà i princìpi lasciano spazio alle emergenze e le regole emergenziali, piano piano, diventano stabili norme di condotta. È così che quella strada concessa all’imputato per dimostrare (quando c’è) la propria innocenza, è divenuta negli anni, riforma dopo riforma, un sentiero stretto e disseminato di ostacoli, poiché l’obiettivo prioritario di una giurisdizione affogata nel mare dei procedimenti pendenti, sembra essere quello di farne saltare il maggior numero possibile sulle mine dell’inammissibilità.
La riforma introdotta dalla legge 103/2017, fra le altre cose, ha posto ulteriori limiti alle impugnazioni, volti in tesi a renderle più tecniche e per questo più specifiche, con conseguente corredo di sanzioni di inammissibilità.
In questo quadro è stato eliminato il diritto dell’imputato a ricorrere in Cassazione con un atto a propria firma (o, come accadeva più di frequente, con un atto da lui sottoscritto ma preparato da un avvocato non ancora abilitato al patrocinio in cassazione).
Di conseguenza, dal 3 agosto 2017, il ricorso per cassazione potrà essere presentato solo da un avvocato cassazionista, che si suppone sia in grado di interpretare ed applicare la griglia normativa, al fine di riuscire nel non facile compito di far passare i motivi attraverso le maglie strette della Curia di legittimità.
Sia detto per inciso che questa rigida griglia normativa costituisce una ben netta linea di tendenza, anche al di là del tema delle impugnazioni. Essa, accompagnata da vari protocolli (o best practice) di valore più o meno negoziale e regolamentare, è tutta tesa a tarpare le ali alla fantasia letteraria e alla fluente eloquenza avvocatesca e costituisce, nella sua zelante cura, volta a standardizzare le tecniche di redazione degli atti e finanche i caratteri tipografici, l’anticamera della (semi) informatizzazione della decisione.
La Corte di Cassazione, nel lodevole intento di fornire linee guida per i primi momenti di applicazione della riforma, ha assunto due documenti (http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Appunto_legge_n_103_del_2017.pdf del 24 luglio e http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/LINEE_GUIDA_Legge_103_2017.pdf del 28 luglio), il secondo dei quali – forse eccessivamente sintetico – sul punto che ci interessa detta un orientamento apparentemente irragionevole e comunque in netto contrasto con il contenuto del primo, costituito da quella relazione dell’Ufficio del massimario, commissionata proprio quale base per le linee guida.
Le linee guida affermano testualmente “la disposizione è applicabile ai ricorsi proposti personalmente dall’imputato dopo l’entrata in vigore della legge, anche se riferiti a provvedimenti emessi in data anteriore.”
In modo opposto ha concluso invece il Massimario, il quale si è espresso ragionevolmente e motivatamente, sulla scorta di autorevole e consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite.
In particolare, a pagina tre, la relazione del Massimario tratta del principio “tempus regit actum”, ricordando che, in forza di tale regola, la novella procedurale si applica immediatamente, salvo che per gli atti in corso di compimento e con effetti non ancora perfezionati.
Sullo specifico tema del regime intermedio delle impugnazioni, si richiama SS.UU. 27614/2007, Lista, la quale è stata costantemente applicata dalla giurisprudenza successiva. Tale sentenza distingue fra modifiche che si riferiscono alle modalità di esercizio della facoltà di impugnare e modifiche del procedimento che disciplina l’impugnazione già proposta e afferma che, quando è ancora pendente il termine per il gravame, la disciplina applicabile deve essere quella vigente al momento di emissione del provvedimento oggetto di censura.        Una scelta diversa, la quale privilegiasse la nuova norma, vigente al momento della proposizione dell’impugnazione ma non anche al momento dell’emissione dell’atto gravato, potrebbe condurre ad esiti irragionevoli, attraverso una discriminazione fra posizioni identiche, influenzata da fattori casuali e aleatori.
In definitiva è più che ragionevole ritenere che la facoltà impugnatoria sia disciplinata sulla base della normativa vigente al momento in cui essa, a seguito del deposito dell’atto, viene ad esistenza, poiché è proprio in base a tale momento e a tale disciplina che l’imputato compie le proprie scelte, anche di carattere temporale.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati – agosto 2017

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Fondo patrimoniale e intestazioni di beni a terzi: l’imputato si salva dal sequestro solo a determinate condizioni

   Com’è noto, il Pubblico Ministero e la parte civile possono chiedere al giudice il sequestro conservativo dei beni dell’imputato, soprattutto per “bloccare” risorse  utili ai fini del risarcimento del danno causato dal reato.

  Per esempio, in caso di bancarotta o di reato tributario, viene richiesto il sequestro dei beni dell’amministratore della società responsabile del crack o della fraudolenta evasione di imposta.

   Questi sono i principali casi che possono presentarsi:

– trattandosi di fondo patrimoniale, oltre a quanto si dirà in seguito con riferimento agli atti a titolo gratuito, occorre considerare che la legge salvaguarda i beni del fondo per i debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, la qual cosa può porre dubbi interpretativi quando si ha a che fare con obbligazioni risarcitorie che nascono da alcuni tipi di reato, come ad esempio quelli tributari, visto che in simili ipotesi non è sempre facile verificare l’estraneità ai bisogni familiari dell’obbligazione rimasta inadempiuta;

– trattandosi, invece, di polizza assicurativa sulla vita, occorre verificarne la natura di strumento previdenziale o, per contro, di strumento finanziario;

– in ogni altro, caso occorre verificare la pignorabilità dei beni o diritti che si intende sottoporre a sequestro, secondo le regole civilistiche valide per specifiche categorie di beni o rapporti;

– quando i beni di cui si chiede il “blocco” sono formalmente intestati a terzi, è poi necessario verificare la natura dell’atto con cui detti terzi li hanno acquisiti, al fine di accertare se la formale intestazione sia da considerare inefficace rispetto al sequestro o, viceversa, possa validamente arginarlo. A questo proposito si possono indicare:

      ● atti dispositivi a titolo gratuito compiuti dall’imputato dopo la commissione del reato, i quali sono sempre travolti dal sequestro;

      ● atti a titolo gratuito compiuti nell’anno precedente la commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova l’intento frodatorio;

     ● atti a titolo gratuito o oneroso compiuti in epoca risalente a più di un anno prima della commissione del reato, che non sono mai travolti dal sequestro;

   ● atti a titolo oneroso eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti dall’imputato dopo la commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova la mala fede dell’acquirente;

   ● atti a titolo oneroso eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti dall’imputato in epoca risalente a non più di un anno prima della commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova la mala fede sia dell’imputato che dell’acquirente;

      ● atti rientranti nel disposto dell’art. 64 legge fallimentare, con riferimento ai reati previsti dalla medesima legge.

   In tutte le predette ipotesi, che rientrano nel concetto di revocatoria penale, l’accertamento dei fatti che legittimano l’apprensione del bene intestato a terzi ed il suo utilizzo per pagare il risarcimento del danno causato dall’imputato o per gli altri fini di giustizia penale, avviene in sede penale e trova il suo terreno d’elezione proprio al momento della richiesta di sequestro.

   Ne deriva la necessità, sia per la parte civile che per la difesa dell’imputato, di introdurre nel processo elementi probatori idonei a sostenere la sequestrabilità di determinati beni o, viceversa, la loro intangibilità.

  Considerando che, accanto alle statuizioni sulla libertà personale, l’odierno processo penale si occupa di rilevanti questioni economiche legate al reato e che, molto spesso, queste ultime colpiscono prima e più duramente delle prime, si rende indispensabile preparare per tempo una difesa efficace anche con riferimento agli aspetti patrimoniali fin qui richiamati.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

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Il fallito può mentire al curatore? Obbligo di verità, facoltà di mentire e pericolo di autoincriminazione: tre possibili prospettive delle dichiarazioni rese agli organi fallimentari

Il fallito, vale a dire l’imprenditore individuale o il legale rappresentante della società fallita, viene ben presto a contatto con il curatore, il quale gli formula svariate domande. Le principali sono quelle destinate a conoscere la consistenza dell’attivo e la presenza di beni da poter utilmente liquidare, come pure quelle volte a ricostruire le cause del dissesto e quelle destinate ad eventuali chiarimenti di ordine contabile.

In questa fase, il fallito manifesta una comprensibile tendenza a intavolare un buon rapporto con il curatore e non sempre è in grado di rendersi conto della portata delle dichiarazioni che rende a verbale. Soprattutto se non accompagnato e adeguatamente assistito da un professionista con specifica formazione in materia.

Su alcune questioni il fallito non può mentire, in quanto esistono delle norme che gli impongono di dire la verità, stabilendo sanzioni penali per la trasgressione.

Parliamo innanzi tutto dell’art. 87 della legge fallimentare, il cui terzo comma dispone che, in sede di redazione dell’inventario il curatore invita il fallito a dichiarare se vi siano ulteriori attività fino a quel momento non appalesate, avvertendolo delle pene stabilite dall’articolo 220 della stessa legge, per il caso di falsa o omessa dichiarazione.

Su questo aspetto, il fallito non può dunque tenere un comportamento omissivo o reticente, poiché ne conseguirebbe un’incriminazione, a titolo doloso o anche colposo.

In realtà, nella prassi dei tribunali è molto raro incontrare un capo di imputazione di questo tipo, in quanto la mancata indicazione di beni viene sempre assorbita nel ben più grave reato di bancarotta per distrazione e anzi ne costituisce una delle più ricorrenti tecniche incriminatorie.

Ne consegue che è proprio con quest’ultima evenienza che il fallito deve fare i conti, allorchè si tratti di decidere quale debba essere il contenuto delle dichiarazioni da rendere al curatore.

L’imputazione di bancarotta per distrazione, sotto il profilo probatorio, si sviluppa attraverso quella peculiarità del diritto penale fallimentare che viene indicata come un’apparente inversione dell’onere della prova.

E’ la giurisprudenza a sottolineare che, in realtà, l’inversione dell’onere della prova è solo apparente e ciò consente che, in questi casi, vengano comminate condanne nel rispetto della presunzione costituzionale di non colpevolezza che, com’è noto, spetta all’accusa di ribaltare.

In sostanza, la mancata indicazione di un bene e la mancata dimostrazione del motivo per il quale lo stesso non è stato consegnato al curatore, sono comportamenti dai quali può essere desunta la prova della distrazione. E ciò anche in forza del fatto che l’art. 87, comma 3, del R.D. n. 267/1942 assegna al fallito un obbligo di verità circa la destinazione dei beni d’impresa. Ne consegue che, ai fini della prova della distrazione, assume rilievo la condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell’interpello. Non si tratta, dunque, di inversione dell’onere delle prova ma, invece, del rilievo indiziario di un contegno reticente.

Al di fuori del caso appena descritto, che si riferisce in modo specifico al dovere di dire la verità in ordine ai cespiti patrimoniali e alle conseguenze che la reticenza può comportare in ordine alla configurazione del reato di bancarotta per distrazione, esiste però un’area molto ampia di argomenti rispetto alla quale il fallito non ha un obbligo specifico di dire al curatore la verità.

Cosa accade ad esempio se un fallito dichiara falsamente, al curatore e alla polizia giudiziaria, che le scritture contabili sono andate distrutte a seguito di un allagamento ?

Nulla di penalmente rilevante.

Infatti, secondo recente giurisprudenza di legittimità, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) sussiste solo qualora l’atto pubblico che recepisce la dichiarazione del privato, sia ontologicamente preordinato a costituire prova della verità dei fatti narrati. Vale a dire che vi deve essere una norma giuridica che ricolleghi alla dichiarazione la specifica funzione di costituire prova della verità dei fatti che ne costituiscono l’oggetto. Ciò non accade per la dichiarazione resa dal fallito, la quale, per il solo fatto di essere recepita nel verbale del curatore, non diventa prova privilegiata della veridicità degli accadimenti.

In sostanza, ciò che il fallito dichiara, anche se a lui favorevole, non gli può giovare se non nel quadro e alla stregua di qualsiasi altro elemento raccolto nel corso della ricostruzione delle cause del dissesto.

Quello che il fallito dichiara al curatore, quando a lui sfavorevole, può per contro assumere un rilievo molto negativo e ciò sia per la mancanza di qualsiasi garanzia difensiva di tipo processual-penalistico, sia per il valore confessorio che la giurisprudenza gli attribuisce, sia, ancora, per il rilievo documentale che la stessa giurisprudenza attribuisce alla relazione del curatore.

Andiamo con ordine e cerchiamo di comprendere per quale ragione il fallito deve pesare bene ogni parola detta al curatore e deve munirsi di una valida assistenza legale di tipo preventivo.

Innanzi tutto è da dire che, nonostante i tentativi reiterati delle difese e due sentenze della Consulta, la Cassazione è monolitica nel dire che le garanzie difensive del codice di procedura penale non si applicano alle dichiarazioni rese dal fallito agli organi della procedura. In sostanza, non vale in questa fase il principio secondo il quale, quando un soggetto, ascoltato dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti, inizi a dire cose dalle quali emergono indizi di reaità a suo carico, occorre “interrompere il verbale” e invitarlo a munirsi di un difensore.

Le Procure, forti di questa monoliticità, stentano a iscrivere il fallito nel registro degli indagati e preferiscono, prima di farlo, che il curatore gli faccia fare una bella serie di dichiarazioni eventualmente autoincriminanti. Spesso i pubblici ministeri lo fanno addirittura impartendo al curatore specifiche direttive in ordine alle domande da porre. In sostanza utilizzano il curatore come loro “longa manus”, ben sapendo che nessun giudice sarà disposto a dire che il curatore è assimilabile alla polizia giudiziaria. E’ evidente che, in questa situazione, chi inizi a parlare col curatore senza aver prima consultato un avvocato esperto nel settore, o è un santo o è un kamikaze.

Tutto ciò, ove ve ne fosse ancora bisogno, è aggravato dal fatto che la relazione del curatore, la quale recepisce al suo interno la letterale trascrizione degli interrogatori del fallito, viene acquisita, senza indugio e nella sua integralità, al fascicolo del dibattimento penale, alla stregua di un qualsiasi altro documento. Inoltre il curatore nel corso del suo esame testimoniale viene ascoltato “de relato” su quanto a lui dichiarato dal fallito e da lui trasposto nella suddetta relazione, ex art. 33 legge fallimentare.

Fallito avvisato ….

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

 

 

 

 

 

 

 

Il giudice deve guardare negli occhi il testimone

Quando nel corso del dibattimento penale cambia la persona fisica che compone l’organo giudicante, i testi devono essere riascoltati dal nuovo giudice.

   Si è fatto un gran parlare della necessità, a presunti fini di economia processuale, di evitare di riascoltare i testimoni davanti al nuovo organo giudicante, qualora mutino la persona o le persone fisiche che lo compongono.

   Si assiste spesso a manifestazioni di fastidio da parte dei giudici quando gli avvocati, in simili ipotesi, chiedono di riascoltare i testimoni.

  Si assiste spesso anche a prassi minimizzatrici del diritto in questione, nelle quali il giudice si limita a chiedere al teste riconvocato se conferma la dichiarazione resa davanti al precedente giudice.

  Come se si trattasse di espletare un rito privo di senso pratico.

  Come se il nuovo giudice non avesse alcun interesse ad adempiere con diligenza a quel dovere morale e professionale che gli impone di guardare il testimone negli occhi.

  Come se il principio del libero convincimento nella formazione del giudizio, così di condanna, come di assoluzione, non gli imponesse di rendersi conto in via diretta dell’attendibilità della fonte.

 Come se il linguaggio corporeo e tutto il corredo di sfumature che accompagnano le parole del dichiarante non avessero alcun valore comunicativo.

  Per fortuna oggi interviene la sentenza delle Sezioni Unite penali (27620/2016), la quale, con grande autorevolezza, riporta al centro del processo penale alcuni concetti basilari, tratti dalla logica del rito accusatorio e dalla giurisprudenza europea sul diritto inalienabile ad un processo equo: oralità della prova, immediatezza della sua formazione davanti al giudice chiamato a decidere e dialettica delle parti nella sua formazione.

  Ecco le parole della sentenza in punto di rapporto diretto fra giudice e testimone:

Dal lato del giudice, la percezione diretta è il presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa. L’apporto informativo che deriva dalla diretta percezione della prova orale è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento sull’apprezzamento degli elementi di prova …

  Tale pronuncia utilizza poi proprio il canone dell’ immediatezza della formazione della prova dichiarativa davanti al giudice chiamato a decidere per stabilire che, qualora il giudice di appello intenda ribaltare una sentenza assolutoria emessa in primo grado, egli deve riascoltare i testimoni ogniqualvolta intenda fornire una diversa e antitetica interpretazione di quanto dagli stessi narrato.

  Attenzione quindi a pretendere la rinnovazione dell’esame dei testimoni, la quale peraltro deve essere disposta anche d’ufficio, quando la sentenza che ha assolto l’imputato venga appellata dal Pubblico Ministero o dalla parte civile, invocando una diversa interpretazione delle risultanze delle prove orali.

Avv. Enrico Leo – tutti i diritti riservati

Fare rete fra avvocato e commercialista per offrire ai rispettivi clienti un servizio migliore

   Studio Legale Leo si occupa di diritto penale dell’economia e, in particolare, di bancarotta, reati tributari, reati societari, con riferimento ai profili di responsabilità di imprenditori, amministratori, sindaci e revisori.

   Si occupa altresì della tutela del patrimonio individuale e aziendale, con riferimento alle varie ipotesi di sequestro penale e di successiva confisca.

   Il diritto penale dell’economia si colloca al confine fra la  professionalità dell’avvocato e quella del commercialista, perché prende in esame condotte che trovano la loro origine e la loro giustificazione nelle scienze economiche, contabili e aziendalistiche.

   Ne deriva la necessità di un costante scambio di valutazioni fra le due figure professionali, quale modulo imprescindibile attraverso il quale gestire correttamente i rischi penali, nella fase dell’eventuale difesa processuale ma, ancora prima, in quella del compimento delle scelte gestionali.

   Se sei un commercialista o un consulente e sei interessato a uno scambio informale di valutazioni su un caso concreto, puoi rivolgerti a noi.

  Ti risponderemo sulla base della nostra esperienza, contando di poter beneficiare, nello stesso tempo, del tuo punto di vista. Il guadagno reciproco sarà quello di potenziare la rete delle nostre relazioni professionali e di incrementare la nostra competenza interdisciplinare.

    Se condividi l’idea, compila il form per parlare del tuo caso o anche solo per darci una tua valutazione.

     Con il tuo consenso, ove di interesse diffuso, pubblicheremo nel nostro blog la tematica affrontata, citando ovviamente l’apporto fornito dal tuo studio. Lo stesso potrai fare tu, a beneficio dei rispettivi clienti, attuali o potenziali.

   Cordialmente

Studio Legale Leo

Dichiarazione fraudolenta e infedele: i rapporti fra il processo tributario e il processo penale

La terza sezione penale della cassazione ha depositato ieri, 12 ottobre, la sentenza 40755/2015 con la quale ha annullato una pronuncia di condanna emessa dalla Corte d’appello di Roma, in materia di reati fiscali.

All’imputato, quale legale rappresentante di una società, era stato contestato il reato di dichiarazione infedele, per avere omesso di valorizzare integralmente in dichiarazione i ricavi della vendita di alcuni appartamenti. In particolare, sia l’Ufficio che la Procura avevano ritenuto irrilevanti i costi di produzione, perché sostenuti oltre dieci anni prima della cessione.

Era però accaduto che, prima della definizione completa del processo penale, fosse passata in giudicato la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale che aveva riconosciuto fondata la deduzione dei detti costi.

La Corte di Cassazione, sconfessando l’operato della Corte di merito, ha statuito che, in una simile fattispecie, il giudice penale, qualora ritenga di doversi scostare dalla sentenza definitiva emessa in sede tributaria, deve spiegare in modo stringente questo suo opinamento.

Deve, in particolare, spiegare per quali ragioni, l’accertamento definitivo raggiunto in sede fiscale non possa spiegare i suoi effetti anche nel giudizio penale.

In definitiva, resta fermo il consolidato orientamento della giurisprudenza penalistica, secondo il quale il giudicato tributario non vincola il giudice penale e quest’ultimo può pervenire – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso.

Basti pensare, in proposito, alla diversità strutturale del rito tributario e del rito penale e, in particolare, alla notevole diversità dei possibili approfondimenti istruttori, nonché ai poteri del giudice penale di disporre qualsiasi mezzo di prova, in vista del perseguimento del fine ultimo della ricerca della verità.

Ciononostante, per discostarsi dall’accertamento concordato con il contribuente o dall’accertamento divenuto definitivo all’esito del contenzioso, il giudice penale deve motivare in modo puntuale le ragioni della divergenza di approdi, pena la nullità della sentenza.

Autore dell’articolo Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

La richiesta di archiviazione fra legittima scelta sulla fondatezza della notizia di reato e sistema di smaltimento dei rifiuti solidi giudiziari

Il Pubblico Ministero, se ritiene infondata la notizia di reato, chiede al Gip che il fascicolo venga archiviato.

Al denunciante che ne abbia fatto richiesta, viene dato avviso di questa intenzione di non perseguire il denunciato e gli viene data la possibilità, entro il termine di dieci giorni, di verificare quali indagini siano state fatte ed eventualmente di rappresentare al Gip una sua motivata contrarietà all’archiviazione, con la richiesta di ulteriori approfondimenti investigativi.

Andando a verificare le motivazioni della richiesta di archiviazione e confrontandole con i risultati delle indagini svolte, non di rado accade di apprendere che il sostituto procuratore incaricato della cura del fascicolo non ha svolto alcuna attività. In questi casi, egli ha custodito il fascicolo su uno scaffale per alcuni anni (in media un paio) e poi, giunto il suo turno, gli ha impressa la destinazione finale, attraverso una motivazione spesso succinta e stereotipata.

Quando ciò accade, si verifica un’ evidente trasgressione del principio di obbligatorietà dell’azione penale e l’articolo 408 cpp da legittimo mezzo per eliminare dal sistema le denunce totalmente infondate o prive di qualsiasi possibilità di fruttuoso sviluppo investigativo, diviene un sistema di smaltimento dell’arretrato. Un metodo assai discutibile, che viene poi utilizzato nelle statistiche giudiziarie per sostenere che i procedimenti penali sono diminuiti.

Di questa problematica, applicata all’ipotesi più specifica di due denunce fra loro connesse e probatoriamente collegate, si è occupata la Cass. pen. Sez. VI, (ud. 13-03-2014) 04-07-2014, n. 29347, presidente Agrò, relatore Leo.

Veniva impugnato per cassazione un decreto di archiviazione emesso de plano dal Gip di Lecce per inammissibilità dell’opposizione, in relazione ad un ipotizzato delitto di calunnia.

Il Pubblico Ministero aveva “sollecitato l’archiviazione – senza compiere indagini dedicate – censurando il ricorso a denunce collaterali al procedimento principale e prospettando un abuso del diritto “non tollerabile dall’ordinamento”.

   Il denunciante aveva presentato opposizione, chiedendo lo svolgimento di indagini integrative, consistenti nell’ acquisizione dei verbali del dibattimento in corso innescato dalla denuncia asseritamente calunniosa e nell’ escussione di ulteriori persone informate dei fatti di cui al procedimento principale.

   Il Gip, fra l’altro, nel decreto de plano affermava che l’accusa di calunnia non sarebbe stata ragionevolmente sostenibile prima che fosse stato definito il giudizio per il fatto principale.

   La Corte ha accolto il ricorso del denunciante e disposto la trasmissione degli atti al Gip per l’ulteriore corso.

   Queste le principali affermazioni motivazionali:

“La valutazione esplicitamente sottesa alla presa di posizione del Procuratore generale, circa l’inopportunità della duplicazione che si determina con l’instaurazione di procedimenti fondati sull’ipotizzata falsità delle accuse altrove sottoposte a verifica, è certamente comprensibile.

Essa del resto si innesta nel percorso di recenti decisioni di questa Corte, che tendono ad ostacolare il fenomeno della duplicazione di procedimenti aventi il medesimo oggetto sostanziale, spesso per finalità non tutelabili dall’ordinamento (come ad esempio quella di trasformare una persona offesa, testimone, in una persona indagata o imputata per reato connesso). La tendenza si è manifestata anche sullo specifico terreno dell’opposizione alla richiesta di archiviazione nel procedimento che, per una qualche ragione, si consideri duplicato, fino ad affermare l’inammissibilità della opposizione medesima, pur in presenza di puntuali indicazioni istruttorie sul merito della regiudicanda, quando si tratti di accertamenti la cui sede naturale viene individuata in un procedimento parallelo, per qualche ragione (in genere la cronologia) considerato “principale” (Sezione 6^, sentenza n. 45206 del 16/07/2013).

In effetti la ratio decidendi della giurisprudenza citata si fonda in buona parte proprio sulla particolare complementarietà delle notizie di reato che concorrono nei casi in questione, tale che il pubblico ministero ben può omettere, quando la denuncia per calunnia risulta strumentale e manifestamente infondata, l’iscrizione della relativa notizia di reato a carico del denunciato, e far confluire l’atto direttamente nel contesto del procedimento “principale”.

L’archiviazione senza approfondimenti istruttori, e la connessa valutazione di inammissibilità dell’opposizione che solleciti tali approfondimenti, rappresentano una sorta di “rimedio” per i casi in cui la notitia criminis del delitto di calunnia non avrebbe dovuto neanche essere iscritta, data la sua manifesta infondatezza e, comunque, la mancanza sostanziale di autonomia rispetto al tema dell’affidabilità della prova d’accusa nel procedimento parallelo sui fatti.”

Fatta questa ricognizione, la sentenza aggiunge nello specifico che

“Nella sua portata generalizzante, la soluzione è inaccoglibile.

Essa rischia di introdurre una logica di pregiudizialità che, in termini generali, è sconosciuta all’ordinamento processuale.

La giurisprudenza, in effetti, ha valorizzato il ne bis in idem ben oltre la portata dell’art. 649 c.p.p., configurando “nuove” fattispecie di improcedibilità dell’azione, ma sempre con riguardo a procedimenti che abbiano lo stesso oggetto, e non semplicemente un rapporto di connessione. Al meritevole scopo perseguito con le tesi in esame possono giovare – sempre sul piano generale – le norme in materia di riunione, o finanche comportamenti di fatto, tenuti dalle parti o dagli stessi magistrati procedenti, alla luce di una gestione ragionevole ed “economica” dei procedimenti (a cominciare, per fare un esempio, dal travaso di risultanze tra procedimenti). Certamente, e però, non può ammettersi quella vera e propria fattispecie di improcedibilità (ancor più: impromovibilità) dell’azione che costituisce il portato della tesi espressa, in termini generali, dalla Procura requirente.”

   In sostanza, la Cassazione ha ritenuto che il rimedio, in una fattispecie di indagini tuttora in corso per entrambi i procedimenti, non sia altro che quello delle indagini coordinate o dello scambio di informazioni fra fascicoli.

E ancora:

“Più radicalmente, e per chiudere, va colta l’inadeguatezza di una soluzione che preclude alla persona offesa finanche una interlocuzione sulla qualità di relazione tra il procedimento che la riguarda e quello che dovrebbe assumere il ruolo di giudizio “principale”. Se anche si ammettesse l’esistenza di una nozione di completezza “dedicata” ai casi di “processo duplicato”, la verifica del caso concreto non potrebbe che svolgersi nel contraddittorio tra le parti, come avviene in tutti i casi in cui non siano affatto “già accertate” o “palesemente ininfluenti” le prove integrative specificamente indicate dalla persona offesa.”

In conclusione, non si può escludere la procedibilità e la fruttuosità di un procedimento penale per calunnia, solo sulla base dell’assunto generalizzante secondo il quale, onde evitare una duplicazione di accertamenti, vi sarebbe una sorta di pregiudizialità del primo giudizio (quello cioè innescato dalla denuncia in ipotesi calunniosa). Per contro, la denuncia di calunnia, se corredata da elementi che ne connotino un certo livello di concretezza, mantiene la sua autonomia e, nei casi in cui entrambi i fascicoli (quello cosiddetto principale e quello relativo alla denuncia per calunnia) siano in fase di indagini preliminari, il Pubblico Ministero, anziché chiedere di archiviare apoditticamente quello per calunnia, deve attivare gli strumenti previsti dall’articolo 371 cpp.

Autore dell’articolo Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Le SS.UU. sulla deposizione del soggetto imputato di reato connesso o collegato non avvertito ex art. 64, comma 3, lett. c) cpp

  La deposizione resa dal soggetto imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, che sia dunque portatore della qualifica di teste assistito, deve essere preceduta – a pena di inutilizzabilità – dall’ avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) cpp, anche ove egli abbia già reso dichiarazioni sulla responsabilità dell’imputato, nel corso di un esame dibattimentale erroneamente condotto senza le garanzie e le forme previste per il suo ruolo.

  Secondo cass. SS.UU. 33583, depositata il 29 luglio 2015, il sistema scaturito dalla riforma del 2001 si impernia sulla libera scelta dell’imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, di riferire fatti concernenti la responsabilità di altri, scelta resa libera e consapevole dall’avviso previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c) e dalla conseguente inutilizzabilità della deposizione, stabilita dal comma 3 bis, per il mancato avvertimento. Di conseguenza il detto avvertimento deve avere, a pena di inutilizzabilità, il più ampio campo di applicazione possibile, sempre che il giudice sia in grado – per gli atti presenti nel fascicolo o per le questioni sollevate dalle parti – di rendersi conto della sussistenza del ruolo rivestito dal dichiarante.

  Questa è la volontà espressa dall’art. 197, 1° comma, lett. b) cpp e sanzionata dall’art. 191 cpp, poiché ne va del diritto dell’imputato a non essere accusato da una persona che, a causa della violazione della norma, non poteva assumere la posizione e gli obblighi del testimone e che, grazie alla specifica scriminante prevista dall’art. 384, 2° co. cp, non assume alcuna responsabilità per le sue dichiarazioni.

  Unica eccezione è data dal soggetto che, al momento dell’interrogatorio e della deposizione, legittimamente rivestiva il ruolo di persona informata sui fatti e, solo a seguito del contenuto della deposizione, abbia assunto quella di indagato o imputato dei reati di calunnia, falsa testimonianza o favoreggiamento personale. In questo caso, la deposizione rimane ferma e valida e si tratterà di una questione di valutazione della prova.

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