Professionista sottoposto a giudizio disciplinare per lo stesso fatto che ha formato oggetto di imputazione in sede penale

  Le Sezioni Unite Civili della Cassazione (22/05/2014, n. 11309) ribadiscono e rafforzano la linea interpretativa secondo la quale, in pendenza del giudizio penale, il procedimento disciplinare incardinato contro il professionista per gli stessi fatti deve essere sospeso.

  Tale obbligatorio rapporto di subordinazione risulta rafforzato dall’attuale formulazione dell’art. 653 cod. proc. pen. (introdotta dall’art. 1 della legge 27 marzo 2001, n. 97), il quale prevede l’efficacia di giudicato, nel giudizio disciplinare, della sentenza penale di assoluzione “… quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso”.

  Ne consegue che, in caso di pendenza del procedimento penale, la sospensione non è solo facoltizzata (come, in via generale e cioè per i casi di pendenza di “altro giudizio” non meglio specificato, dispone ad esempio per i commercialisti, l’art. 20, primo comma, del Regolamento del Procedimento Disciplinare attualmente in vigore) ma si impone, in quanto l’esito del procedimento penale ha efficacia diretta sul procedimento disciplinare.

  La norma che gli Organi di disciplina dovranno applicare è l’art. 295 cpc, a mente del quale “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.

  L’effetto sospensivo è destinato ad esaurirsi con il passaggio in giudicato della sentenza penale.

  Anche in considerazione del disposto del comma primo bis del citato articolo 653 cpp, il quale stabilisce, per converso, l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare “…quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”, tutto viene a dipendere dal tenore della contestazione disciplinare.

 Quando la scelta disciplinare si concretizza nel ritenere che l’illecito deontologico risieda (solo) nel fatto che l’iscritto ha commesso un reato, senza che il capo di incolpazione venga connotato da elementi ulteriori e di mera rilevanza extrapenale, si realizza una sorta di abdicazione della giustizia disciplinare, poiché come precisa la Cassazione è l’esistenza stessa del reato a costituire la sostanza dell’ illecito disciplinare.

  In questi casi, come precisa altro e precedente arresto delle Sezioni Unite (09/05/2011, n. 10071), l’azione disciplinare, che ha natura obbligatoria, non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, costituito dal passaggio in giudicato della sentenza penale.

  A ben vedere, ove si volesse condurre tale pensiero alle sue estreme conseguenze, se ne dovrebbe dedurre che, prima di tale giudicato, l’azione disciplinare dovrebbe addirittura essere archiviata, con applicazione, per ciò che riguarda ad esempio i Commercialisti, dell’art. 8 comma prima, lettera c) del  Regolamento del Procedimento Disciplinare.

  Resta solo da aggiungere che il consolidarsi dell’ interpretazione appena citata, viene ad influenzare in modo diretto le norme sui termini di prescrizione dell’azione disciplinare. Infatti, nel caso di fatto che costituisca reato, questa inizia a maturare solo dal verificarsi del presupposto e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale.

Autore Enrico Leo. Tutti i diritti riservati