Sequestro preventivo di somme sul conto corrente della società per reati commessi dall’amministratore

Com’è noto, in caso di reato commesso dall’esponente di un ente (ad esempio dall’amministratore di una società), se il titolo dell’illecito lo prevede, può essere emesso un provvedimento di sequestro diretto del profitto del reato, da eseguirsi anche presso l’ente medesimo, ove il patrimonio dello stesso abbia tratto beneficio dal reato in parola.
Una delle principali matrici normative di tale fenomeno risiede nell’art. 322-ter del codice penale.
Di tale norma rilevano principalmente i seguenti incisi:
– “…è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”
– “… il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato”
In sostanza, il sistema normativo, nel caso che ci interessa, prevede la confiscabilità (e, dunque, prima ancora, il sequestro) dei beni della società, proprio in quanto persona non estranea al reato.
Problemi specifici sorgono quando il prezzo/profitto, come spesso accade, sia costituito da denaro giacente su rapporto bancario dell’ente.
In particolare ci si domanda se in tali casi il sequestro debba essere limitato al saldo presente sul conto al momento dell’imposizione del vincolo, oppure possa colpire anche le somme entrate successivamente (ad esempio un bonifico eseguito da un cliente in data successiva al sequestro del conto).
La tematica ha un importante rilievo pratico, perché coinvolge sia il comportamento che deve essere tenuto dall’istituto di credito, sia, prima ancora, quello degli organi esecutivi, che devono disporre il trasferimento delle somme presso il Fondo Unico Giustizia gestito dall’Agenzia delle Entrate.
Sulla questione si registrano recenti pronunce della cassazione penale, alcune a sezioni unite.
In particolare, si è sostenuto, in termini generali, che ove il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura fungibile del denaro, non necessita della prova del nesso esistente in via diretta tra il reato e le dette giacenze.
A fronte di tale affermazione di principio, sembrano rendersi necessarie alcune precisazioni volte ad evitare di estenderne la portata fino a conseguenze non insite nelle premesse e tanto meno nel dettato della legge.
Una prima logica implicazione del principio è volta a sottolineare che, poiché il denaro è un bene fungibile – cento euro sono sempre cento euro, a prescindere dall’identità fisica delle cento monete che li compongono – nell’eseguire il sequestro è superfluo accertare se la somma indebitamente percepita sia stata spesa, occultata o investita. Insomma non hanno rilevanza gli eventuali movimenti che la somma possa aver subito.
Si tratta di un concetto abbastanza chiaro, il quale, però, dovrebbe essere completato col dire che esso si applica senza alcun dubbio a patto che sul conto bancario in questione vi sia pur sempre un saldo attivo, quale indice presuntivo del fatto che tali somme siano rimaste nella disponibilità della persona giuridica quale derivazione del profitto del reato commesso.
Ove per contro si andasse a constatare che le giacenze, al momento del sequestro, mancano in tutto o in parte e che le stesse, ove poi ripristinate, abbiano una provenienza che inequivocabilmente ne esclude la riconducibilità al reato in questione, il sequestro diretto non potrebbe più essere eseguito.
Non potrebbe essere eseguito perché nel caso descritto risulterebbe reciso il vincolo di derivazione diretta fra le somme costituenti il profitto del reato e le nuove somme afferite sul conto. Sarebbe, dunque, quantomeno necessario provare da parte dell’accusa che tali nuove somme non sono altro che la monetizzazione di un reimpiego del prezzo del delitto.
Altrimenti ragionando si finirebbe per sovrapporre indebitamente le due distinte figure normative, vale a dire quella del sequestro diretto e quella del sequestro per equivalente.
Il sequestro diretto colpisce il prezzo o profitto del reato per il quale vi sia prova di diretta derivazione dall’illecito, mentre quello per equivalente colpisce, con carattere più marcatamente sanzionatorio, un qualsiasi bene presente nel patrimonio del reo che abbia un valore equivalente al prezzo o profitto ricavati dal reato.
Figura quest’ultima che, secondo un’autorevole sentenza delle SS.UU. penali (10561/2014), non può colpire il patrimonio della società amministrata dal soggetto per il cui reato si procede, a meno che (a) tale società abbia costituito un mero schermo per la commissione dell’illecito penale oppure (b) si stia procedendo contro la stessa ex lege 231/2001.

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