Professionista sottoposto a giudizio disciplinare per lo stesso fatto che ha formato oggetto di imputazione in sede penale

  Le Sezioni Unite Civili della Cassazione (22/05/2014, n. 11309) ribadiscono e rafforzano la linea interpretativa secondo la quale, in pendenza del giudizio penale, il procedimento disciplinare incardinato contro il professionista per gli stessi fatti deve essere sospeso.

  Tale obbligatorio rapporto di subordinazione risulta rafforzato dall’attuale formulazione dell’art. 653 cod. proc. pen. (introdotta dall’art. 1 della legge 27 marzo 2001, n. 97), il quale prevede l’efficacia di giudicato, nel giudizio disciplinare, della sentenza penale di assoluzione “… quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso”.

  Ne consegue che, in caso di pendenza del procedimento penale, la sospensione non è solo facoltizzata (come, in via generale e cioè per i casi di pendenza di “altro giudizio” non meglio specificato, dispone ad esempio per i commercialisti, l’art. 20, primo comma, del Regolamento del Procedimento Disciplinare attualmente in vigore) ma si impone, in quanto l’esito del procedimento penale ha efficacia diretta sul procedimento disciplinare.

  La norma che gli Organi di disciplina dovranno applicare è l’art. 295 cpc, a mente del quale “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.

  L’effetto sospensivo è destinato ad esaurirsi con il passaggio in giudicato della sentenza penale.

  Anche in considerazione del disposto del comma primo bis del citato articolo 653 cpp, il quale stabilisce, per converso, l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare “…quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”, tutto viene a dipendere dal tenore della contestazione disciplinare.

 Quando la scelta disciplinare si concretizza nel ritenere che l’illecito deontologico risieda (solo) nel fatto che l’iscritto ha commesso un reato, senza che il capo di incolpazione venga connotato da elementi ulteriori e di mera rilevanza extrapenale, si realizza una sorta di abdicazione della giustizia disciplinare, poiché come precisa la Cassazione è l’esistenza stessa del reato a costituire la sostanza dell’ illecito disciplinare.

  In questi casi, come precisa altro e precedente arresto delle Sezioni Unite (09/05/2011, n. 10071), l’azione disciplinare, che ha natura obbligatoria, non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, costituito dal passaggio in giudicato della sentenza penale.

  A ben vedere, ove si volesse condurre tale pensiero alle sue estreme conseguenze, se ne dovrebbe dedurre che, prima di tale giudicato, l’azione disciplinare dovrebbe addirittura essere archiviata, con applicazione, per ciò che riguarda ad esempio i Commercialisti, dell’art. 8 comma prima, lettera c) del  Regolamento del Procedimento Disciplinare.

  Resta solo da aggiungere che il consolidarsi dell’ interpretazione appena citata, viene ad influenzare in modo diretto le norme sui termini di prescrizione dell’azione disciplinare. Infatti, nel caso di fatto che costituisca reato, questa inizia a maturare solo dal verificarsi del presupposto e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale.

Autore Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Cooperative edilizie: la banca mutuante non può minacciare di vendere all’asta gli immobili dei soci se non ha frazionato il mutuo e l’ipoteca

  Cass. civ. Sez. I, Sent. 21-06-2013, n. 15685, ha stabilito un principio i cui risvolti pratici non saranno molto graditi agli Istituti di credito ma che, al contrario, sembrano destinati a far tornare la serenità in molte famiglie assegnatarie di alloggi di cooperative edilizie o promissarie acquirenti di immobili da costruire.

  Il supremo collegio ha dettato il principio in parola partendo dal caso di una cooperativa edilizia che, contratto un mutuo con relativa ipoteca sugli immobili da realizzare, non aveva poi restituito i soldi alla banca. Esso è però estensibile, almeno in parte, anche per la tutela di promissari acquirenti di immobili da costruire.

  Per comprendere come, nella pratica, si possa verificare l’insoluto, è bene richiamare lo schema operativo classico delle cooperative di edificazione.

  La società, quando non usufruisce di contributi statali, realizza le costruzioni attingendo a due fonti: le anticipazioni dei soci ed il credito bancario.

  Dal punto di vista bilancistico ed in estrema sintesi, entrambe le poste rappresentano per la cooperativa dei debiti che, sotto il profilo patrimoniale, si compensano con il valore attivo rappresentato dal costo dei terreni acquistati e delle costruzioni realizzate.

  Attivo e passivo sono destinati ad elidersi al momento dell’assegnazione degli immobili ai soci. Al verificarsi di quell’evento, la posta rappresentata da quanto la cooperativa ha ricevuto dai soci in conto costruzione si azzera, visto che a fronte degli acconti versati gli assegnatari ricevono la casa a suo tempo prenotata.

  Ma anche il debito verso la banca si deve azzerare. Ciascun socio, infatti, nell’atto di prenotazione e di accettazione del piano finanziario individuale, avrà indicato se ed in quale misura egli intenda avvalersi dell’accollo di una quota mutuo. La cooperativa amministrata da un Cda virtuoso, al momento di accendere il mutuo, si sarà dunque regolata sulla base della sommatoria delle richieste di accollo, con il risultato che, all’atto dell’assegnazione, il debito verso la banca sarà integralmente accollato dagli assegnatari.

  Se questa è la fisiologia e se si tiene conto del fatto che anche eventuali sopravvenienze, se legittime, possono essere addebitate ai soci, appare spontaneo concludere che, quando una cooperativa si rende morosa verso la banca, di solito ciò accade a causa della mala gestio degli amministratori.

  La cronaca tristemente ricorrente di casi del genere, etichettati come truffe ai danni dei soci, dimostra che, spesso, soggetti abituati ad operare nel sottobosco della cooperazione edilizia, organizzano iniziative edificatorie con l’unico scopo di appropriarsi delle ingenti somme affidate alla loro gestione.

  Costoro, grazie alla predisposizione di bilanci falsi, alla carenza di controlli o alla “disattenzione” dei controllori:

  • Richiedono mutui esorbitanti rispetto alle necessità dei soci, approfittando spesso di periti e funzionari compiacenti;
  • Gonfiano la prospettazione dei costi di costruzione ed ottengono dai soci anticipazioni superiori al necessario;
  • Distraggono una buona parte dei soldi e, in particolare del mutuo bancario, con il risultato che, al momento dell’assegnazione, i soci si rendono conto che sulle loro case grava un’ipoteca ben maggiore di quella corrispondente alla quota di accollo pattuita con la cooperativa. Paradossalmente, minore è la quota di mutuo richiesta, maggiori sono le somme già versate alla cooperativa e più si rischia. Fino al caso di quei soci che, non avendo chiesto alcun mutuo, si trovano a dover pagare la casa due volte.

  Gli Istituti mutuanti, infatti, facendo leva sull’intero ammontare dell’ipoteca, originariamente unitaria, azionano il diritto di credito senza frazionare il mutuo, vale a dire in via solidale. Il risultato è che ciascun socio viene chiamato a corrispondere alla banca una quota proporzionale del prestito, che non tiene conto dell’accollo pattuito a suo tempo. Così, ad esempio, a chi non aveva pattuito alcun accollo – e perciò ha già saldato alla cooperativa l’intero corrispettivo – viene richiesta la stessa quota di chi aveva stabilito di prendere il mutuo.

  E anche quando la banca si dice formalmente disposta ad ottemperare alla legge, che impone il frazionamento (D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 39), molto spesso pretende di farlo obbligando i soci ad accollarsi non la quota da costoro a suo tempo pattuita ma, invece, quella corrispondente alla frazione aritmetica dell’intero insoluto.

  Un simile contegno, che è illegittimo sotto diversi profili e, in alcuni casi, ove accompagnato da pressioni psicologiche, potrebbe addirittura integrare gli estremi di reato, è stato oggi sconfessato dalla Suprema Corte, la quale, riprendendo il filo conduttore di una pronuncia del 2008 (Cass. 20 marzo 2008, n. 7453), ha applicato quanto previsto dall’art. 1273, u.c. cod. civ. in materia di accollo. Vale a dire che il terzo accollante (nel nostro caso il socio) “… è obbligato verso il creditore che ha aderito alla stipulazione nei limiti in cui ha assunto il debito … “. Cioè nei limiti dell’importo che il socio, nell’atto di prenotazione intercorso con la cooperativa, aveva pattuito di accollarsi, quale quota di mutuo in conto corrispettivo.

  La sentenza ha dunque stabilito che:

“L’ipoteca, dopo il frazionamento, deve garantire soltanto la quota di mutuo che il terzo si è accollato e non una quota corrispondente al valore della singola unità rispetto al valore del complesso delle unità immobiliari gravate dall’ipoteca;”

“rientra nel rischio accettato dalla banca, nell’erogare il mutuo senza procedere al frazionamento, la possibilità che una parte dell’importo mutuato non sia più assistito da una garanzia ipotecaria ed è, invece, da escludere che la garanzia possa trasferirsi sulle altre unità immobiliari in misura superiore alla quota di mutuo accollata dagli altri acquirenti.”

“Nel caso in cui il frazionamento redatto dal notaio in sostituzione della banca non rispetti i criteri dettati dalla legge ed anche ove ciò accada per le indicazioni date dal presidente del tribunale nel suo decreto, il frazionamento deve ritenersi nullo (totalmente nel caso in cui l’acquirente abbia pagato il prezzo senza accollarsi alcuna quota del mutuo; ovvero parzialmente nella parte in cui il frazionamento abbia posto a carico di una unità immobiliare una quota del mutuo superiore a quella accollatasi dal suo acquirente).”

“La nullità può essere accertata in un giudizio contenzioso nel quale non sono contraddittori necessari nè gli altri acquirenti né il mutuatario.”

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.

 

Processo giudiziario e processo mediatico: quando il giudice scontenta gli spettatori

  Il recente esito dell’udienza preliminare del caso Ragusa, ripropone e avvalora l’opportunità di una riflessione sul tema del processo penale mediatico.

  Si tratta, com’è noto, di un fenomeno che ha assunto dimensioni sempre più ingombranti negli ultimi anni, a seguito dello sviluppo di alcune trasmissioni televisive che, in nome della libertà di informazione ma, in realtà, con preponderante attenzione ai dati di audience, hanno introdotto una mutazione genetica nella cronaca giudiziaria.

  La trasformazione sta nel fatto che, nei casi di maggiore risonanza, l’attività giornalistica non si limita a raccontare gli sviluppi dell’inchiesta o del processo ma, in parte non trascurabile, dà vita ad un processo parallelo.

  Ciò avviene in modo ancor più marcato nella fase delle indagini preliminari, in cui, il procedimento giudiziario, coperto dal segreto, vive solo di indiscrezioni, mentre quello televisivo procede in modo pubblico e, naturalmente, molto più spedito.

 Con il risultato che il cittadino/spettatore, mentre ascolta il racconto (necessariamente frammentario e impreciso) degli atti dell’ inchiesta giudiziaria, vive in diretta lo svolgimento degli atti dell’inchiesta televisiva e, quando la prima inchiesta giunge ad un risultato, questo viene accettato in modo più o meno favorevole a seconda del livello di coincidenza con quello dell’inchiesta televisiva. Chi avesse dei dubbi in proposito potrà dare una rapida occhiata ai post con i quali è stata commentata in rete la decisione del Gup di Pisa, considerata scandalosa e illegittima proprio perché delegittimata dal giudizio diffuso e inappellabile di colpevolezza, che era stato emesso dall’inchiesta televisiva.

  Alcune di queste trasmissioni, al momento della nascita del nuovo corso mediatico, si occupavano di ricerca degli scomparsi. Da lì alla ricerca degli scomparsi presuntivamente oggetto di crimini violenti e, poi, alla ricerca di testimoni, il passo è stato breve.

  Questa fase è stata – e lo è tuttora, nella misura in cui a ciò ci si limiti – di notevole utilità per la capacità di apportare un ausilio ad alcune tipologie di indagini giudiziarie, purchè svolta, beninteso, di concerto con le Procure.

  La fase successiva a cui si sono spinte le trasmissioni in parola, pone invece qualche dubbio di compatibilità con lo svolgimento della funzione giudiziaria.

  Si tratta, invero, di una fase in cui, come si accennava, le redazioni televisive svolgono esse stesse le indagini preliminari.

  Lo fanno attraverso attività di ricerca della prova, ascolto delle persone informate sui fatti, interrogatorio degli indagati, esperimenti giudiziali, consulenze tecniche, attività tutte i cui risultati sono poi messi immediatamente a disposizione dell’universo mondo televisivo.

  E’ bene chiedersi quali danni tutto questo possa arrecare al sistema di amministrazione della giustizia.

  Eccone alcuni, in ordine sparso e senza presunzione di completezza o sistematicità.

   Violazione del segreto di indagine. Il segreto è funzionale alla buona riuscita delle indagini. L’indiscriminata diffusione delle notizie può arrecare pregiudizi anche irreparabili, concedendo al colpevole dei vantaggi conoscitivi che possono pregiudicare l’attività di acquisizione della prova.

  Violazione dei diritti dell’indagato. Basti pensare al fatto che costui, quand’anche solo sospettato, viene subito richiesto di rilasciare una video intervista e, a seguito di tale richiesta, scatta per lui un duplice, alternativo, trabocchetto. Se non vi si sottopone, deve subire le conseguenze di un aggravamento dei sospetti. Se vi si sottopone, rischia di patire l’analisi e il giudizio mediatico di più o meno paludati esperti di comunicazione non verbale e, cosa ancor più grave, rischia che nessuno interrompa la progressione delle domande a fronte di un’ eventuale emersione di indizi di reità. Con l’ulteriore grave conseguenza che le risposte fornite al giornalista televisivo potrebbero essere poi utilizzate come documento nel futuro processo e non invece dichiarate inutilizzabili, come quando assunte dagli organi inquirenti.

  Violazione del principio di uguaglianza. Il principio di uguaglianza, nella sua declinazione di uguaglianza di fronte alla legge, così come di fronte al procedimento e al processo, impone che il giusto processo sia uguale per tutti, senza distinzione fra chi viene attinto dal grande occhio televisivo e chi, per le ragioni più varie, riesce a rimanere coperto dal cono d’ombra. Analogo discorso vale, ovviamente, per le parti offese, le quali subiscono spesso un trattamento differenziato, a seconda che abbiano o meno il patrocinio televisivo.

  Violazione del principio di verginità conoscitiva del giudice. Il codice di procedura penale richiede che il giudicante, all’inizio del processo, sia allo scuro degli atti di indagine. Esso parte dal principio che meno il giudice conosce, meno rischia di essere pregiudicato, nel suo delicato lavoro ricostruttivo e decisorio, da elementi di convincimento che egli non abbia appreso in modo immediato e diretto dalla dinamica probatoria dibattimentale. E’ vero che, in parte, questo principio è destinato a rimanere espressione di una linea tendenziale e non sempre le contingenze consentono il suo integrale rispetto. Pur con tale consapevolezza, non è però possibile legittimare una sistematica, consapevole e piena violazione di tale valore fondante.

  Violazione del contraddittorio processuale, quale metodo di accertamento della verità giudiziaria. Per le stesse ragioni espresse al punto che precede, è necessario che l’imputato e per esso il suo difensore, non sia pregiudicato dalla preesistenza di un “esame televisivo del teste” e possa invece contare sulla corretta dinamica dell’esame e del controesame dibattimentale.

  Il catalogo di violazioni che precede lascia volutamente fuori la lesione del diritto alla riservatezza che, in non poche evenienze fra quelle narrate, risulta perpetrata in modo eccessivo e non proporzionato, in termini di bilanciamento, a quelli che sarebbero stati i fisiologici effetti di un processo giudiziario, libero dall’ingombrante sovrapposizione del processo mediatico.

  Eppure, sembra proprio che lo spettacolo debba andare avanti.

Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

La cancellazione della società dal registro delle imprese vale per tutti meno che per il fisco

   Com’è noto, ai sensi dell’art. 2495 c.c., la cancellazione di una società dal registro delle imprese ne determina l’estinzione.
Secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale, si può chiedere la cancellazione di una società anche se il bilancio finale di liquidazione è in perdita ed espone un passivo non ripianato né ripianabile.
Sotto il profilo processuale, l’intervenuta estinzione per cancellazione, ove dichiarata dal procuratore della parte, comporta l’interruzione del giudizio in corso e la necessità di riassumerlo nei confronti dei soci.
A prescindere da tale interruzione e dalla conseguente riassunzione – evenienza in cui i soci hanno una posizione di mera legittimazione processuale – dopo l’estinzione di una società di capitali non residua alcuna responsabilità patrimoniale per gli ex soci, salva l’ ipotesi, descritta dal secondo comma dell’articolo 2495 cc, secondo la quale “i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”.
Altro effetto dell’uscita dal registro delle imprese è quello previsto dall’articolo 10 della legge fallimentare, il quale prevede che il fallimento di una società estinta possa essere dichiarato solo entro un anno dalla cancellazione.
Il dlgs 21/11/2014, n. 175, all’art. 28, 4° comma, ha introdotto una disposizione che, nell’interesse del fisco, deroga in parte alla disciplina comune sin qui descritta.
Essa prevede che “Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese.”
Occorre chiedersi se tale deroga sia legittima e quale sia la sua portata.
Con riferimento a tale secondo aspetto, occorre chiedersi, in particolare, se si tratti di una semplificazione di ordine meramente processuale, volta a non intralciare la definizione delle pretese tributarie e dei relativi contenziosi o se essa possa produrre effetti più estesi, come ad esempio quelli relativi al termine per proporre la richiesta di fallimento.
Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Bancarotta per falso in bilancio: la difesa del sindaco in punto di dolo

  Molti sindaci di società fallite rischiano di essere incriminati per bancarotta societaria ex art. 223, 2° co. n. 1 della legge fallimentare. Quando ciò avviene, spesso l’accusa tende a ricostruire il loro atteggiamento soggettivo in termini di dolo eventuale, pur senza nominare espressamente tale istituto.

  Infatti, in mancanza di prove più specifiche in ordine alla collusione dei controllori con i controllati, la tendenza è quella di enfatizzare l’incongruità delle poste di bilancio incriminate, definendola di  macroscopica evidenza, per poi concludere che il fatto che i sindaci abbiano concorso ad approvare quel bilancio, senza avanzare rilievi, costituisce la dimostrazione della consapevolezza dei falsi e della volontà di concorrere ad occultarli.

   Tale opzione ricostruttiva può prestare il fianco a critiche e lasciare spazi efficaci alla difesa.

  Punto di partenza è il contenuto della norma in questione, il quale, con l’espressione “hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622 …”, richiama, in punto di dolo, la norma sulle false comunicazioni sociali, la quale, a sua volta, prevede che, ai fini della punibilità, debba ricorrere nell’agente “l‘intenzione di ingannare i soci o il pubblico” e “il fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto”.

   Ne discende che, anche ove realmente presenti, le macroscopiche distorsioni del documento contabile non possono essere considerate, da sole, sufficienti a fondare la prova del dolo del sindaco, oltre la soglia del ragionevole dubbio. Invero, per quanto deprecabile sotto altri aspetti, ai fini penalistici in parola non è inverosimile pensare ad un controllore che abdichi volontariamente ai suoi doveri, partecipando formalisticamente ad un consistente numero di collegi, senza svolgere, anche solo per mancanza di tempo, alcuna attenta e penetrante azione di controllo. Costui, a causa di tale opzione, ben potrebbe rischiare di non accorgersi delle false appostazioni, pur senza essere minimamente animato dalle finalistiche intenzionalità previste dalla norma richiamata.

  Secondo Cass. pen. Sez. V, 24/11/2010, n. 2784, la disposizione sulle false comunicazioni sociali, come uscita dalla novella del 2001, prevede la presenza nel soggetto agente “…del dolo generico (rappresentazione del mendacio) e di un dolo intenzionale di inganno dei destinatari, previsto per fugare ogni possibile lettura in chiave di dolo eventuale … (oltre che di un dolo specifico, rispetto ai contenuti dell’offesa, qualificata da ingiusto profitto)”.

  Questa linea di pensiero è stata di recente ripresa da Cass. pen. Sez. feriale, 27/08/2013, n. 46151, la quale, se pure con riferimento a diverso reato, ha preso di nuovo in esame le caratteristiche del dolo intenzionale e gli elementi per un valido riscontro processuale del medesimo. Per quello che può interessare il comportamento del sindaco fin qui esaminato, di notevole interesse è la proposizione decisoria secondo la quale “La prova del dolo intenzionale non può derivare esclusivamente dal comportamento non iure dell’agente ma deve essere inferita anche da altri elementi sintomatici…

   Come pure la statuizione secondo la quale l’avverbio “intenzionalmente” vale a rendere necessario che “l’evento sia la conseguenza immediatamente presa di mira dall’agente, escludendo, in tal modo, le condotte poste in essere sia con dolo diretto che con dolo eventuale”.

   Tutto ciò comporta che, sebbene non sia indispensabile la prova specifica della collusione con gli amministratori, per l’accertamento del dolo non sarà sufficiente la mera constatazione del comportamento illegittimo del sindaco, consistito nel trascurare un’attenta disamina del bilancio, da cui avrebbe potuto ricavare la conoscenza delle alterazioni. Per la condanna a titolo di dolo, sarà invece indispensabile dare prova di elementi circostanziali idonei a dare conto delle specifiche ragioni che hanno determinato l’inerzia del controllore.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.

L’imprenditore che ritarda nel chiedere il proprio fallimento risponde di bancarotta solo se versa in colpa grave

   Accade spesso, soprattutto in tempi di grave crisi economica, di incontrare imprenditori che si dibattono fra l’idea di chiedere il fallimento in proprio e quella di tentare ancora un’ ultima carta, sperando in un accordo di ristrutturazione dei debiti o in altra operazione di salvataggio .

   In simili evenienze, ciascun consulente è solito avvisare il proprio cliente del rischio bancarotta semplice.

   L’articolo 217 della legge fallimentare, infatti, punisce l’imprenditore dichiarato fallito che, pur non avendo commesso fatti fraudolenti, (…) “ ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa …

   La Corte di cassazione, sez. V penale (sentenza 25 settembre, 24 ottobre 2013, presidente Palla, relatore Zazza), interviene opportunamente a delimitare l’area del reato. Per farlo, si sofferma sull’ elemento psicologico, affermando che l’atteggiamento psichico dell’imprenditore può determinarne la condanna solo ove sia improntato alla colpa grave, mentre non è sufficiente una negligenza di minor spessore.

   Occorre dire, prima ancora di approfondire le caratteristiche della colpa, che per l’accertamento del reato è necessario stabilire il momento in cui si è obiettivamente verificato lo stato di insolvenza. Solo a partire da quella data, infatti, per l’imprenditore scatta il dovere di chiedere il fallimento, onde non aggravare il proprio dissesto.

   Si tratta di un accertamento non sempre agevole. La norma lo definisce come “l’incapacità di soddisfare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni” (art. 5 legge fall.) ma, nella pratica, si tende a postulare la presenza di zone grigie, almeno fino a quando si sia radicata la concomitanza di più indici rivelatori quali, ad esempio, revoche di tutti i principali affidamenti bancari, mancato pagamento di somme dovute a titolo di sostituto di imposta, più decreti ingiuntivi esecutivi e più procedure esecutive.

   E, in effetti, è proprio la presenza di zone grigie che va a influenzare lo stato soggettivo di quell’imprenditore che, in buona fede o con colpa lieve, ritiene di poter ancora riuscire a recuperare quello che egli avverte come uno squilibrio finanziario non ancora irreversibile.

   La sentenza in commento afferma che la colpa inescusabile non può essere ritenuta automaticamente sussistente ogniqualvolta l’imprenditore abbia ritardato nel richiedere il fallimento. Per contro, l’intensità dell’elemento volitivo deve essere delibata caso per caso, tenendo conto della ragionevolezza delle scelte che hanno determinato l’attesa e, più ancora, delle ragionevoli prospettive che da tali scelte sembravano scaturire. Ad esempio, qual è la misura oltre la quale è grave confidare “… in un esito positivo della difficile trattativa con gli istituti di credito per il ripianamento del debito bancario …” ?

   Proprio sul mancato approfondimento di questo passaggio va ad infrangersi la tenuta della sentenza impugnata. La Corte di legittimità ne ritiene carente la motivazione in quanto il giudice di merito ha omesso di qualificare il grado della colpa, proprio in riferimento ai tentativi di accordo con le banche, che erano venuti meno solo a seguito del dissenso espresso da un istituto e “per effetto della condizione, alla quale l’accordo era subordinato, dell’adesione di tutti gli istituti interessati”.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.

Condannato il commercialista che “aiuta troppo” il proprio cliente

Un consulente, commercialista della società fallita, viene condannato per concorso nella bancarotta per distrazione, posta in essere dall’amministratore.

Si tratta della nota figura del c.d. extraneus, punito a titolo di concorso nel reato commesso dal soggetto che riveste la qualifica soggettiva propria di una determinata ipotesi criminosa, ad esempio la qualifica di amministratore di una società commerciale rispetto alla bancarotta o ad altri reati societari.

Questo il fatto: il consulente, oltre ad essere commercialista della fallita, in qualità di amministratore di altra società, partecipata dalla fallita, aveva accettato un versamento operato dalla prima e contabilizzato dalla percipiente “in conto aumento di capitale sociale”.

La sentenza di condanna riteneva importante la collocazione temporale del detto trasferimento di denaro, avvenuto in epoca molto vicina al mancato pagamento del debito che poi determinava il fallimento. Alla luce di ciò, il versamento veniva giudicato come volto a svuotare la cassa della fallita.

I giudici valorizzavano altresì il fatto che il programmato aumento di capitale della partecipata non aveva in realtà avuto luogo e, dunque, “veniva a mancare il titolo giustificativo per ritenere regolare il trasferimento di fondi …

Inoltre, erano emerse nel corso del processo, sia l’ assenza di una necessità immediata che la partecipata disponesse delle somme corrispondenti all’aumento del capitale sociale, sia la circostanza, ritenuta anch’essa rilevante, che la stessa, dalla sua costituzione al fallimento, non aveva svolto alcuna attività.

La difesa del commercialista aveva insistito nel dedurre sia l’assenza di un contributo causalmente rilevante, sia la mancanza della volontà di aiutare gli organi della fallita a distogliere l’importo dalle ragioni creditorie (depauperamento o ostacolo frapposto alla pronta fruibilità).

In particolare, il consulente, quale amministratore della percipiente, non aveva fatto altro che recepire una decisione già assunta dall’amministratore della fallita. Inoltre, la ricezione di una somma di denaro giustificata da una causale lecita, doveva considerarsi condotta non censurabile.

La condanna veniva da ultimo confermata in sede di legittimità (Cass. pen. Sez. V, 18/04/2013, n. 40332), ove si ribadiva che i giudici del merito avevano correttamente ritenuta provata la sussistenza del dolo del consulente, volto ad aiutare il proprio assistito a porre in essere una manovra distrattiva ai danni dei creditori.

Pare evidente che la ragione della condanna risiede nell’aver ritenuto fittizio l’aumento di capitale a cui era intitolato il trasferimento della somma, come pure nell’aver ritenuto che il commercialista, per la sua contiguità con l’amministratore della fallita e per il suo ruolo di amministratore della partecipata, fosse ben consapevole di tale fittizietà.

Ciò nonostante, desta una qualche perplessità l’aver ritenuto sussistente il carattere distrattivo dell’operazione e, di conseguenza, l’aver sentenziato la consapevole partecipazione del commercialista a un’operazione frodatoria.

L’eccessiva estensione del carattere di lesività per il ceto creditorio, attribuita ad operazioni formalmente irreprensibili, rischia infatti di penalizzare la normale operatività economica.

Pur considerando che l’evento del reato di bancarotta per distrazione consiste nella lesione dell’interesse dei creditori e che tale lesione viene individuata anche quale ostacolo o ritardo frapposto alla realizzazione delle loro ragioni, non può prescindersi dai seguenti rilievi.

La mera dazione di una somma ad una società partecipata, a titolo di “futuro aumento di capitale” non può ritenersi atto squilibrato sotto il profilo economico patrimoniale. Vale a dire che esso non può integrare gli estremi di un trasferimento dal carattere sicuramente depauperatorio per la fallita, la quale, invero, mantiene nel proprio patrimonio sia il valore della partecipazione sia, eventualmente, quello del credito.

In definitiva, in mancanza della dimostrazione della (consapevolmente programmata) incapienza della partecipata, che nel processo in esame sembra non aver avuto ingresso nel materiale probatorio, non si può dire che l’atto incriminato sia sicuramente fittizio, né che abbia arrecato pregiudizio ai creditori, né tantomeno che esso sia connotato da una natura ontologicamente depauperatoria.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.