Le SS.UU. sulla deposizione del soggetto imputato di reato connesso o collegato non avvertito ex art. 64, comma 3, lett. c) cpp

  La deposizione resa dal soggetto imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, che sia dunque portatore della qualifica di teste assistito, deve essere preceduta – a pena di inutilizzabilità – dall’ avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) cpp, anche ove egli abbia già reso dichiarazioni sulla responsabilità dell’imputato, nel corso di un esame dibattimentale erroneamente condotto senza le garanzie e le forme previste per il suo ruolo.

  Secondo cass. SS.UU. 33583, depositata il 29 luglio 2015, il sistema scaturito dalla riforma del 2001 si impernia sulla libera scelta dell’imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, di riferire fatti concernenti la responsabilità di altri, scelta resa libera e consapevole dall’avviso previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c) e dalla conseguente inutilizzabilità della deposizione, stabilita dal comma 3 bis, per il mancato avvertimento. Di conseguenza il detto avvertimento deve avere, a pena di inutilizzabilità, il più ampio campo di applicazione possibile, sempre che il giudice sia in grado – per gli atti presenti nel fascicolo o per le questioni sollevate dalle parti – di rendersi conto della sussistenza del ruolo rivestito dal dichiarante.

  Questa è la volontà espressa dall’art. 197, 1° comma, lett. b) cpp e sanzionata dall’art. 191 cpp, poiché ne va del diritto dell’imputato a non essere accusato da una persona che, a causa della violazione della norma, non poteva assumere la posizione e gli obblighi del testimone e che, grazie alla specifica scriminante prevista dall’art. 384, 2° co. cp, non assume alcuna responsabilità per le sue dichiarazioni.

  Unica eccezione è data dal soggetto che, al momento dell’interrogatorio e della deposizione, legittimamente rivestiva il ruolo di persona informata sui fatti e, solo a seguito del contenuto della deposizione, abbia assunto quella di indagato o imputato dei reati di calunnia, falsa testimonianza o favoreggiamento personale. In questo caso, la deposizione rimane ferma e valida e si tratterà di una questione di valutazione della prova.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

Contratti di appalto che nascondono somministrazione di manodopera: una bomba a orologeria per l’azienda

Sono contratti spesso mal consigliati e ancor più spesso redatti su moduli totalmente generici, così generici da risultare inefficaci al primo controllo degli ispettori del lavoro o della polizia giudiziaria.

Spesso gli imprenditori desiderosi di esternalizzazioni al risparmio, vengono indotti a preferire i prezzi prospettati da società che non risultano regolarmente abilitate alla somministrazione di prestazioni lavorative.

In questo modo incappano nella commissione di un reato, che risulta molto pericoloso per almeno due ragioni. La prima è che si tratta di un reato contravvenzionale con una pena pecuniaria estremamente alta: cinquanta euro al giorno per ogni lavoratore impiegato. Poiché molto spesso l’illecito viene accertato dopo qualche anno di vigenza del contratto e per più lavoratori contemporaneamente, basta fare i conti per capire il rischio economico. La seconda attiene al fatto che, trattandosi di reato punito con la sola ammenda, non è previsto il grado di appello e, con soli due gradi di giudizio, la prescrizione diventa molto spesso un miraggio.

A questo si aggiunga che, come confermato dalla recente Cassazione (sezione terza, n. 32697/2015, depositata il 27 luglio), i giudici si basano molto su quanto riferito dagli accertatori, utilizzando motivazioni francamente insoddisfacenti e stereotipate, le quali richiamano in modo astratto due concetti.

Il primo si bada sul mancato esercizio,  da parte del datore di lavoro formale, del potere organizzativo e disciplinare, poteri che invece vengono esercitati dell’utilizzatore, a riprova del fatto che è lui la vera parte datoriale. Il secondo sulla mancanza, in capo allo pseudo appaltatore, del rischio di impresa e, più in generale, sull’assenza della caratteristiche contrattuali tipiche di un vero appalto.

Per queste ragioni chiunque utilizzi di fatto lavoratori messi a disposizione da società non abilitate, operando sotto lo schema formale di un contratto di appalto, dovrebbe sottoporre ad attenta disamina il rapporto, per capire se sta commettendo un reato. Non si deve dimenticare infatti che vi sono casi in cui le esigenze dell’utilizzatore rientrano davvero nello schema dell’appalto genuino e che, in tali ipotesi, basterebbe una corretta formalizzazione del rapporto per evitare il rischio penale.

Corretta formalizzazione che consiste principalmente in un’ adeguata rappresentazione del contenuto e dello scopo del sinallagma.

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Il sequestro e la confisca delle somme giacenti sui rapporti bancari intestati all’imputato possono sopravvivere alla prescrizione del reato

Quando l’obiettivo della difesa è quello di ottenere la svincolo delle somme sequestrate sui conti dell’imputato, puntare sulla prescrizione rischia di essere una strategia processuale inutile.

La linea evolutiva della nostra giurisprudenza penale è, infatti, quella di erodere progressivamente la portata pratica di un istituto da sempre avversato dai giudici: la prescrizione del reato.

Questo è l’approdo della recentissima SS.UU. depositata il 21 luglio 2015, la quale aggiunge una seconda statuizione, di non minore importanza: quando ci si riferisce a denaro giacente su rapporti intestati all’imputato, si può procedere al sequestro e alla confisca in modo diretto, fino all’ammontare del prezzo o del profitto del reato, senza dover prima verificare che tali somme siano proprio quelle provenienti dal delitto. Tutto ciò è reso possibile dalla natura del denaro, bene fungibile per eccellenza.

Quanto alla prima questione, è da dire che la Corte ha potuto superare lo sbarramento della prescrizione richiamando la natura della confisca del prezzo o profitto del reato.

Si tratta della cosiddetta confisca diretta, la quale si distingue da quella per equivalente in ragione del fatto che la seconda – che si rende possibile quando, non potendosi realizzare la prima, si vanno a sequestrare beni nella disponibilità del reo, anche se non direttamente riconducibili al reato – ha natura sanzionatoria. La natura della prima, invece, è correlata alla sua funzione, che è quella di sottrarre all’imputato un bene che, per la sua stretta derivazione dal delitto, è entrato nel suo patrimonio quale effetto di un negozio con causa illecita. In questo caso, perciò, la confisca non integra una pena patrimoniale ma si limita ad annullare un’ acquisizione civilisticamente priva di causa.

Una simile ricostruzione, nel ragionamento dei giudici, permette di superare le obiezioni sollevate dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), secondo la quale, al di là delle etichette giustapposte dal singolo Stato, ciò che conta per verificare se una certa misura appartiene al genus della pena (a contenuto patrimoniale), è la sua sostanza. Se essa comporta non già l’eliminazione di un vantaggio indebito (scopo riparatorio/preventivo) ma l’ablazione di un parte di patrimonio che non sia legata da un nesso di derivazione causale col singolo fatto oggetto del giudizio (scopo punitivo/deterrente), siamo allora nel campo delle pene e, per la sua applicazione, si richiede un accertamento definitivo della responsabilità del soggetto agente secondo i canoni del giusto processo.

Quando, viceversa, la natura della confisca non sia sanzionatoria, è possibile valorizzare l’accertamento giurisdizionale svolto, anche se non culminato nel giudicato formale.

Il termine di paragone più prossimo è quello dell’azione civile di danno inserita nel processo penale: anch’essa rimane valida in caso di prescrizione del reato a patto che vi sia stata quantomeno una sentenza di condanna in primo grado.

Perché la confisca diretta possa sopravvivere alla prescrizione è dunque necessario che ci sia un accertamento completo del fatto e della responsabilità del suo autore, anche se non passato in giudicato. Tale accertamento può essere quello di un primo grado di giudizio ma anche quello, purché esaustivo, compiuto in una fase processuale diversa. In particolare, l’obbligo di immediata declaratoria di una causa di non punibilità, non assorbe quello di pronunciarsi sulla sussistenza degli estremi della confisca in parola.

In conclusione, è possibile confiscare in via definitiva il prezzo o il profitto del reato, anche se, nel corso del processo, sia intervenuta declaratoria di prescrizione. Non è invece possibile farlo se si tratta di sequestro per equivalente.

Con l’aggiunta che, sempre secondo la sentenza in commento, non si tratterà mai di confisca per equivalente, vertendosi sempre in ipotesi di confisca diretta, quando la misura colpisca somme di denaro depositate a nome dell’imputato.

E sarà confisca diretta tanto nel caso di prezzo che di profitto , e, con riferimento a quest’ultimo, sia che il profitto consista in un effettivo accrescimento patrimoniale, sia che rappresenti un risparmio di spesa.

La più importante conseguenza di questo inquadramento è che l’ablazione della somma non è subordinata alla verifica che la stessa provenga direttamente dal delitto per cui si procede, in quanto la particolare natura fungibile del bene-denaro, rende inesigibile la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato. Saranno sequestrabili e confiscabili le somme giacenti su rapporti di pertinenza del reo fino alla concorrenza dell’importo pari al prezzo o profitto di quel reato.

Il che comporta un’indubbia semplificazione, vale a dire l’enucleazione di una confisca di denaro che si comporta come quella per equivalente, quando si tratta di escludere la necessità dell’accertamento di una diretta derivazione delle somme dal reato, e come quella diretta quando si tratta di farla sopravvivere alla prescrizione.

Facile ipotizzare che ben pochi imputati lasceranno somme sui propri conti.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

A scheme run for an insurance fraud

1) As part of a money laundering action…

… purchasing of some savings and loans of poor value, because burdened with non-performing mortgages

2) purchasing of a small domestic insurance company, to be paid for with loans from the savings and loans

3) swapping the non-performing mortgages from the savings and loans for good bonds held by the insurance company

 

the savings and loans are now collateralized with profitable paper, making them very attractive, while the insurance company is sitting on a portfolio of non-performing mortgages

4) forming an offshore re-insurance company

5) writing off to the re-insurer the premiums owned by the insurance company, sending them straight back to the offshore trust.

6) solding for a handsome profit the savings and loans while the insurance company is doomed to go bankruptcy .

Intestazione a terzi di beni immobili, automobili o barche, per sottrarsi al pagamento dei debiti

Novità legislative per chi si spoglia dei propri beni per sfuggire ai creditori.

Con la nuova norma introdotta dal decreto legge 83/2015 sarà inutile trasferire i propri beni a terzi a titolo gratuito, in quanto il creditore potrà pignorarli come se fossero ancora intestati al debitore, senza dover più imbarcarsi in una causa per revocatoria.

Alla luce di tale novità, per chi volesse mettere i propri beni al riparo da eventi patrimoniali sfavorevoli, diviene ancor più importante concepire per tempo – dunque prima della nascita del debito – adeguati strumenti di protezione o segregazione patrimoniale.

E’ facile intuire, peraltro, che si continuerà ad assistere a fenomeni di azioni “last minute” e, in questo caso, i protagonisti avranno fatto ricorso alla vendita, vera o, più spesso, simulata.

La vendita, infatti, essendo un atto a titolo oneroso, non rientra nel range operativo della nuova norma.

La vendita fittizia però, com’è noto, presenta difficoltà e rischi che negli ultimi anni sono andati via via crescendo.

Difficoltà operative di ordine pratico, rischi di revocatoria, soprattutto se il creditore è in grado di raggiungere la prova della natura fittizia dell’atto, e rischi penali.

Questi ultimi insorgono spesso come conseguenza della necessità, prevista dalla legge, di dichiarare al notaio i mezzi finanziari attraverso i quali è stato pagato il prezzo.

Compiere atti simulati o fraudolenti sui propri beni al fine di sottrarsi all’adempimento di un’obbligazione, infatti, può costituire reato. Integra, ad esempio, questo delitto la condotta di chi simuli la vendita di un bene attraverso giri fittizi di assegni atti a dimostrare falsamente l’intervenuto pagamento del prezzo.

E la forma di reato può essere anche più grave quando, poi, con successivi passaggi artificiosi, si tenti di dissolvere ulteriormente le tracce del bene sottratto ai creditori.

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La diffusione televisiva delle intercettazioni non è priva di limiti

  Le intercettazioni, è ampiamente noto, sono atti che ledono il diritto alla segretezza delle comunicazioni e alla riservatezza della vita personale.

  Tale lesione, cosa altrettanto chiara, è giustificata, in casi specifici e tassativi, dal prevalente interesse pubblico alla repressione dei reati.

  La diffusione del contenuto delle conversazioni intercettate diviene lecita dopo il deposito degli atti che accompagna la fine delle indagini o, anche prima, quando esse siano rese accessibili attraverso il deposito di un atto o di un provvedimento di cui le parti processuali possano prendere visione.

  Diffusione lecita, dunque, ma non incondizionata.

  La violazione del diritto alla segretezza del contenuto delle captazioni, resa possibile dalla prevalenza dell’interesse alla repressione dei reati, incontra, anche dopo la pubblicizzazione degli atti processuali, un limite legato alla sua originaria matrice di tutela costituzionale.

  Tale limite non può essere valicato indiscriminatamente ma solo in ragione di ulteriori interessi pubblici, che siano di volta in volta ritenuti prevalenti e che siano assistiti, nella loro concreta estrinsecazione, dai caratteri della pertinenza e continenza.

  Uno di questi interessi è quello al libero esercizio della cronaca giudiziaria e della critica dei provvedimenti giurisdizionali.

  Quando si esercita un simile diritto di cronaca e di critica, non è escluso che si possa fare ricorso al contenuto di intercettazioni, purché ciò avvenga con modalità tali da assicurare che la diffusione delle frasi intercettate sia strettamente pertinente al provvedimento giudiziario in oggetto, che sia indispensabile per condurne la critica in modo efficace, che non sia sovrabbondante rispetto allo scopo.

  A parere di chi scrive, è invece illecito quell’uso che travalichi i limiti imposti dalle predette modalità, come accade quando le intercettazioni vengono utilizzate come base per la discussione di un salotto televisivo, ai cui partecipanti il conduttore chieda di commentare le frasi pronunciate da una persona intercettata, che non sia neppure indagata, il cui contenuto abbia un rapporto di mera occasionalità con il reato e si riferisca, invece, ad aspetti personalissimi, legati alla sfera dell’introspezione e dell’emotività. In casi consimili, la violazione è aggravata dalle concrete modalità della propalazione, la quale si attui attraverso un non indispensabile ricorso all’audio originale, ed è confermata dalla conversazione intavolata dagli ospiti, la quale si concentri nella formulazione di un giudizio di ordine morale sul contegno della predetta persona non indagata.

Autore dell’articolo Enrico Leo. Tutti i diritti riservati