CANONE DI LOCAZIONE E CORONAVIRUS: E’ LEGITTIMO SOSPENDERNE IL PAGAMENTO?

Gli effetti della pandemia da Covid-19 sul ciclo economico nazionale stanno assumendo e assumeranno connotati sempre più rilevanti e gravi in tutti gli ambiti della vita economica del paese.

Le prime ricadute di tale mutamento di scenario economico non tarderanno a manifestarsi negli uffici giudiziari, specie con riguardo alle azioni che verranno intraprese a seguito dell’impossibilità o della difficoltà di adempiere all’obbligazione di pagamento dei canoni locativi di attività commerciali ad oggi inibite o comunque penalizzate dall’enorme diminuzione del volume d’affari.

Accanto agli effetti nel breve periodo della crisi di liquidità che ha potuto colpire alcuni conduttori, superata la fase emergenziale e allentati i vincoli allo spostamento fisico delle persone, è anche possibile che l’importo del canone di locazione originariamente pattuito, divenga non più sostenibile in una cornice di complessiva recessione economica.

D’altronde la prima risposta normativa a tale situazione emergenziale non appare particolarmente soddisfacente, atteso che l’art. 65 del decreto-legge n. 18 del 2020 (cd. decreto Cura Italia) si è limitato a prevedere al comma 1, che, per contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, ai soggetti esercenti attività d’impresa (non rientranti fra quelle essenziali di cui al d.P.C.m 11 marzo 2020) è riconosciuto, per l’anno 2020, un credito d’imposta, da utilizzare in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, nella misura del 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1.

Stante la straordinarietà del presente scenario socio-economico, bisogna interrogarsi su quali strumenti giuridici sia possibile attivare a tutela, a seconda dei casi, del conduttore o del locatore, per inquadrare correttamente le opposte esigenze. Da un lato ottenere una riduzione quantomeno temporanea del canone, nell’alveo di un’evoluzione del rapporto contrattuale che non può non tener conto della grave situazione economica in cui versa o verserà inevitabilmente l’impresa conduttrice, in uno scenario economico così gravemente compromesso sia a livello nazionale che internazionale. Dall’altro, garantire un equo contemperamento degli interessi fra le parti.

Ciò soprattutto in assenza, quantomeno per ora, di un auspicabile intervento normativo a sostegno delle imprese anche su tale fronte contrattuale, certamente essenziale nell’ordinario svolgimento dell’attività economica.

Volendo mettere da parte, per il momento, l’ipotesi in cui il conduttore voglia porre fine al rapporto locatizio per un irreversibile default, certamente la prima e più impellente necessità delle imprese è oggi quella di poter ottenere quantomeno una riduzione temporanea del canone, che aiuti a sostenere la ripresa.

A questo scopo non appare percorribile la strada di un’autosospensione del pagamento del canone, ancor di più se il conduttore vi procede senza addurre alcuna giustificazione che dovrà, invece, essere manifestata in forma scritta e ben motivata. La mera autosospensione del pagamento del canone  assumerebbe i connotati di una forma di autotutela, priva di sostegno normativo e contraria a buona fede ed esporrebbe il conduttore a un’azione di risoluzione per inadempimento.

Non aiuta particolarmente nemmeno l’art. 91 del decreto “cura Italia” che consente oggi al Giudice di valutare il necessario rispetto delle misure restrittive disposte dal Governo, quale evento rilevante ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti, peraltro non meglio specificati dal legislatore. Tale norma, infatti, ha un’evidente efficacia temporalmente limitata alla vigenza delle misure restrittive e, cosa più importante, non evita – ma anzi induce – la necessità, appena menzionata, dell’inoltro di una motivata comunicazione al locatore, il cui contenuto, per essere efficace, dovrà essere valutato caso per caso.

Qualora tale motivata comunicazione non dovesse condurre ad un accordo bonario fra le parti, si potrebbe configurare il ricorso ad alcuni specifici rimedi giudiziari, con lo scopo, nei casi di più grave difficoltà, di sciogliersi definitivamente dal vincolo contrattuale e, negli altri, di provocare un intervento riequilibratore del giudice.

Vi si possono annoverare, a seconda dei casi e delle concrete esigenze, il recesso per gravi motivi e l’azione di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Nell’ipotesi in cui il conduttore, stante l’eventuale effetto irreversibile dell’attuale contingenza economica sull’attività d’impresa, voglia porre fine al rapporto di locazione, potrà esercitare il diritto di recesso ex art. 27, ultimo comma, della legge n. 392 del 1978.

Costituisce, infatti, insegnamento giurisprudenziale che l’ipotesi di recesso legale, invocabile ed esperibile dal conduttore, attribuisce la facoltà di svincolarsi dal contratto a prescindere dagli accordi assunti con il locatore, allorquando ricorrano motivi a tal punto gravi da non consentire l’ulteriore prosecuzione della locazione.

La gravità dei motivi deve essere apprezzata tenendo conto di determinati avvenimenti che siano sopravvenuti rispetto alla costituzione del rapporto locatizio, estranei alla volontà del recedente ed imprevedibili, cioè eccedenti l’ambito della normale alea contrattuale, tali non solo da determinare un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie non altrimenti rimediabile, ma anche da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda globalmente considerata.

Pertanto, con riguardo all’andamento dell’attività aziendale, può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica, sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (come quello odierno), che lo obblighi a ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo (a titolo esemplificativo cfr Cass. 28 febbraio 2019, n. 5802).

Ovviamente, ricade sul conduttore l’onere di provare la ricorrenza dei gravi motivi secondo la prospettazione appena fornita.

Occorre altresì precisare che l’esercizio legittimo del diritto di recesso non esonera il conduttore dall’obbligo di indicare un preavviso di almeno sei mesi e versare i canoni maturati durante tale lasso di tempo.

E’ per ovviare a quest’ultimo inconveniente che il conduttore potrebbe pensare di fare ricorso all’azione di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione ex art. 1467 c.c., anche in questo caso, come dice il codice, in conseguenza del “verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili”, nell’ambito dei quali si potrebbe a maggior ragione collocare la pandemia in corso.

In tal caso, è necessario che l’evento sopravvenuto sia eccezionale ed abbia inciso sulla prestazione, rendendola eccessivamente onerosa per una delle parti. Il conduttore dovrà dimostrare che l’importo del canone è divenuto economicamente non più sostenibile e sinallagmaticamente non più equo.

Tale rimedio sembrerebbe distinguersi dal recesso, sia per la diversa operatività dell’istituto del preavviso, sia per la possibilità prevista dal terzo comma del citato articolo 1467 c.c., il quale ci dice che “La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.

E’ opinione maggioritaria che la parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, cod. civ., ma non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio.

In sostanza, il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità della prestazione non potrebbe pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite (a titolo esemplificativo cfr. Cass. 26 gennaio 2018, n. 2047).

In assenza, dunque, della volontà del locatore di ridurre il canone di locazione, anche ove convenuto con un’azione giudiziale per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, il  conduttore potrebbe solo far leva sull’ipotesi, di incerta integrazione giuridica, di applicabilità dell’istituto della reductio ad equitatem del canone.

Tale potere processuale, ove ritenuto invocabile, potrebbe trarre linfa da un’applicazione del principio di buona fede di cui all’art. 1375 cod. civ. che regola l’esecuzione dei contratti nell’ottica di un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti contraenti.

Detta opzione, oltre a essere coerente con la richiamata prima risposta legislativa sul parziale credito d’imposta, che, appunto, risponde all’orizzonte ultimo di assicurare la piena operatività dei contratti, apparirebbe altresì coerente, in relazione all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, all’interpretazione costituzionalmente orientata «dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta […] un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte», così come in ultima analisi evidenziati dallo stesso Giudice delle Leggi nella sentenza n. 248 del 2013 e nell’ordinanza 77 del 2014.

Ove si volesse invocare un simile scenario giuridico, il Giudice sarebbe chiamato a fare un uso prudente dei suoi poteri correttivi ex art. 1374 cod. civ. Egli, nel tener conto anche della posizione del locatore, dovrebbe procedere, previamente, a un rigoroso accertamento dell’effettiva incidenza del momento emergenziale sull’andamento dell’azienda conduttrice e, quindi, a un’applicazione del proprio potere riequilibrativo ancorata a dati obiettivi, che potrebbe avere anche un orizzonte temporale limitato, senza protrarsi per l’intera durata contrattuale.

Tale ipotesi di tutela per il conduttore, sebbene certamente interessante ed  ancorata ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’ampiezza dei poteri d’intervento del Giudice nell’ambito di un rapporto contrattuale in cui emerga un importante sbilanciamento tra le prestazioni delle parti, non trova però, ad oggi, un addentellato normativo specifico.

Proprio in considerazione di ciò, appare fortemente auspicabile un serio intervento da parte del legislatore che, preso atto della straordinaria contingenza odierna, provveda a introdurre nuove disposizioni che, a tutela non solo del tessuto commerciale italiano ma anche degli stessi interessi dei locatori, consentano e rendano conveniente la rimodulazione temporanea dei termini contrattuali.

D’altronde, ora più che mai, stante l’eccezionalità della situazione, prodotta non certo dalla cattiva gestione aziendale dei conduttori ma, inevitabilmente, dalla cogente applicazione dalle misure restrittive del Governo, sarebbe buona norma, prima di ogni ulteriore valutazione anche di natura giudiziale, pianificare consensualmente, con il supporto di una congrua consulenza legale, una rimodulazione anche temporanea delle pattuizioni contrattuali, nell’interesse di entrambe le parti, quando sia comune la volontà di proseguire nel vincolo contrattuale.

Autore dell’articolo Antonella Pulcini

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