Il fallito può mentire al curatore? Obbligo di verità, facoltà di mentire e pericolo di autoincriminazione: tre possibili prospettive delle dichiarazioni rese agli organi fallimentari

Il fallito, vale a dire l’imprenditore individuale o il legale rappresentante della società fallita, viene ben presto a contatto con il curatore, il quale gli formula svariate domande. Le principali sono quelle destinate a conoscere la consistenza dell’attivo e la presenza di beni da poter utilmente liquidare, come pure quelle volte a ricostruire le cause del dissesto e quelle destinate ad eventuali chiarimenti di ordine contabile.

In questa fase, il fallito manifesta una comprensibile tendenza a intavolare un buon rapporto con il curatore e non sempre è in grado di rendersi conto della portata delle dichiarazioni che rende a verbale. Soprattutto se non accompagnato e adeguatamente assistito da un professionista con specifica formazione in materia.

Su alcune questioni il fallito non può mentire, in quanto esistono delle norme che gli impongono di dire la verità, stabilendo sanzioni penali per la trasgressione.

Parliamo innanzi tutto dell’art. 87 della legge fallimentare, il cui terzo comma dispone che, in sede di redazione dell’inventario il curatore invita il fallito a dichiarare se vi siano ulteriori attività fino a quel momento non appalesate, avvertendolo delle pene stabilite dall’articolo 220 della stessa legge, per il caso di falsa o omessa dichiarazione.

Su questo aspetto, il fallito non può dunque tenere un comportamento omissivo o reticente, poiché ne conseguirebbe un’incriminazione, a titolo doloso o anche colposo.

In realtà, nella prassi dei tribunali è molto raro incontrare un capo di imputazione di questo tipo, in quanto la mancata indicazione di beni viene sempre assorbita nel ben più grave reato di bancarotta per distrazione e anzi ne costituisce una delle più ricorrenti tecniche incriminatorie.

Ne consegue che è proprio con quest’ultima evenienza che il fallito deve fare i conti, allorchè si tratti di decidere quale debba essere il contenuto delle dichiarazioni da rendere al curatore.

L’imputazione di bancarotta per distrazione, sotto il profilo probatorio, si sviluppa attraverso quella peculiarità del diritto penale fallimentare che viene indicata come un’apparente inversione dell’onere della prova.

E’ la giurisprudenza a sottolineare che, in realtà, l’inversione dell’onere della prova è solo apparente e ciò consente che, in questi casi, vengano comminate condanne nel rispetto della presunzione costituzionale di non colpevolezza che, com’è noto, spetta all’accusa di ribaltare.

In sostanza, la mancata indicazione di un bene e la mancata dimostrazione del motivo per il quale lo stesso non è stato consegnato al curatore, sono comportamenti dai quali può essere desunta la prova della distrazione. E ciò anche in forza del fatto che l’art. 87, comma 3, del R.D. n. 267/1942 assegna al fallito un obbligo di verità circa la destinazione dei beni d’impresa. Ne consegue che, ai fini della prova della distrazione, assume rilievo la condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell’interpello. Non si tratta, dunque, di inversione dell’onere delle prova ma, invece, del rilievo indiziario di un contegno reticente.

Al di fuori del caso appena descritto, che si riferisce in modo specifico al dovere di dire la verità in ordine ai cespiti patrimoniali e alle conseguenze che la reticenza può comportare in ordine alla configurazione del reato di bancarotta per distrazione, esiste però un’area molto ampia di argomenti rispetto alla quale il fallito non ha un obbligo specifico di dire al curatore la verità.

Cosa accade ad esempio se un fallito dichiara falsamente, al curatore e alla polizia giudiziaria, che le scritture contabili sono andate distrutte a seguito di un allagamento ?

Nulla di penalmente rilevante.

Infatti, secondo recente giurisprudenza di legittimità, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) sussiste solo qualora l’atto pubblico che recepisce la dichiarazione del privato, sia ontologicamente preordinato a costituire prova della verità dei fatti narrati. Vale a dire che vi deve essere una norma giuridica che ricolleghi alla dichiarazione la specifica funzione di costituire prova della verità dei fatti che ne costituiscono l’oggetto. Ciò non accade per la dichiarazione resa dal fallito, la quale, per il solo fatto di essere recepita nel verbale del curatore, non diventa prova privilegiata della veridicità degli accadimenti.

In sostanza, ciò che il fallito dichiara, anche se a lui favorevole, non gli può giovare se non nel quadro e alla stregua di qualsiasi altro elemento raccolto nel corso della ricostruzione delle cause del dissesto.

Quello che il fallito dichiara al curatore, quando a lui sfavorevole, può per contro assumere un rilievo molto negativo e ciò sia per la mancanza di qualsiasi garanzia difensiva di tipo processual-penalistico, sia per il valore confessorio che la giurisprudenza gli attribuisce, sia, ancora, per il rilievo documentale che la stessa giurisprudenza attribuisce alla relazione del curatore.

Andiamo con ordine e cerchiamo di comprendere per quale ragione il fallito deve pesare bene ogni parola detta al curatore e deve munirsi di una valida assistenza legale di tipo preventivo.

Innanzi tutto è da dire che, nonostante i tentativi reiterati delle difese e due sentenze della Consulta, la Cassazione è monolitica nel dire che le garanzie difensive del codice di procedura penale non si applicano alle dichiarazioni rese dal fallito agli organi della procedura. In sostanza, non vale in questa fase il principio secondo il quale, quando un soggetto, ascoltato dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti, inizi a dire cose dalle quali emergono indizi di reaità a suo carico, occorre “interrompere il verbale” e invitarlo a munirsi di un difensore.

Le Procure, forti di questa monoliticità, stentano a iscrivere il fallito nel registro degli indagati e preferiscono, prima di farlo, che il curatore gli faccia fare una bella serie di dichiarazioni eventualmente autoincriminanti. Spesso i pubblici ministeri lo fanno addirittura impartendo al curatore specifiche direttive in ordine alle domande da porre. In sostanza utilizzano il curatore come loro “longa manus”, ben sapendo che nessun giudice sarà disposto a dire che il curatore è assimilabile alla polizia giudiziaria. E’ evidente che, in questa situazione, chi inizi a parlare col curatore senza aver prima consultato un avvocato esperto nel settore, o è un santo o è un kamikaze.

Tutto ciò, ove ve ne fosse ancora bisogno, è aggravato dal fatto che la relazione del curatore, la quale recepisce al suo interno la letterale trascrizione degli interrogatori del fallito, viene acquisita, senza indugio e nella sua integralità, al fascicolo del dibattimento penale, alla stregua di un qualsiasi altro documento. Inoltre il curatore nel corso del suo esame testimoniale viene ascoltato “de relato” su quanto a lui dichiarato dal fallito e da lui trasposto nella suddetta relazione, ex art. 33 legge fallimentare.

Fallito avvisato ….

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati