L’imputato non può più proporre personalmente il ricorso per cassazione. Qualche dubbio sul regime intertemporale

  Com’è noto, nel processo penale, in nome del principio di favore per le impugnazioni, è consentito all’imputato ricorrere contro la condanna anche personalmente, vale a dire con atto a propria firma. Il principio trova ragione nella presunzione di innocenza e nella conseguente volontà di ampliare il più possibile le strade che sono concesse al cittadino per dimostrare la propria.
Ma si sa, in periodi di difficoltà i princìpi lasciano spazio alle emergenze e le regole emergenziali, piano piano, diventano stabili norme di condotta. È così che quella strada concessa all’imputato per dimostrare (quando c’è) la propria innocenza, è divenuta negli anni, riforma dopo riforma, un sentiero stretto e disseminato di ostacoli, poiché l’obiettivo prioritario di una giurisdizione affogata nel mare dei procedimenti pendenti, sembra essere quello di farne saltare il maggior numero possibile sulle mine dell’inammissibilità.
La riforma introdotta dalla legge 103/2017, fra le altre cose, ha posto ulteriori limiti alle impugnazioni, volti in tesi a renderle più tecniche e per questo più specifiche, con conseguente corredo di sanzioni di inammissibilità.
In questo quadro è stato eliminato il diritto dell’imputato a ricorrere in Cassazione con un atto a propria firma (o, come accadeva più di frequente, con un atto da lui sottoscritto ma preparato da un avvocato non ancora abilitato al patrocinio in cassazione).
Di conseguenza, dal 3 agosto 2017, il ricorso per cassazione potrà essere presentato solo da un avvocato cassazionista, che si suppone sia in grado di interpretare ed applicare la griglia normativa, al fine di riuscire nel non facile compito di far passare i motivi attraverso le maglie strette della Curia di legittimità.
Sia detto per inciso che questa rigida griglia normativa costituisce una ben netta linea di tendenza, anche al di là del tema delle impugnazioni. Essa, accompagnata da vari protocolli (o best practice) di valore più o meno negoziale e regolamentare, è tutta tesa a tarpare le ali alla fantasia letteraria e alla fluente eloquenza avvocatesca e costituisce, nella sua zelante cura, volta a standardizzare le tecniche di redazione degli atti e finanche i caratteri tipografici, l’anticamera della (semi) informatizzazione della decisione.
La Corte di Cassazione, nel lodevole intento di fornire linee guida per i primi momenti di applicazione della riforma, ha assunto due documenti (http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Appunto_legge_n_103_del_2017.pdf del 24 luglio e http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/LINEE_GUIDA_Legge_103_2017.pdf del 28 luglio), il secondo dei quali – forse eccessivamente sintetico – sul punto che ci interessa detta un orientamento apparentemente irragionevole e comunque in netto contrasto con il contenuto del primo, costituito da quella relazione dell’Ufficio del massimario, commissionata proprio quale base per le linee guida.
Le linee guida affermano testualmente “la disposizione è applicabile ai ricorsi proposti personalmente dall’imputato dopo l’entrata in vigore della legge, anche se riferiti a provvedimenti emessi in data anteriore.”
In modo opposto ha concluso invece il Massimario, il quale si è espresso ragionevolmente e motivatamente, sulla scorta di autorevole e consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite.
In particolare, a pagina tre, la relazione del Massimario tratta del principio “tempus regit actum”, ricordando che, in forza di tale regola, la novella procedurale si applica immediatamente, salvo che per gli atti in corso di compimento e con effetti non ancora perfezionati.
Sullo specifico tema del regime intermedio delle impugnazioni, si richiama SS.UU. 27614/2007, Lista, la quale è stata costantemente applicata dalla giurisprudenza successiva. Tale sentenza distingue fra modifiche che si riferiscono alle modalità di esercizio della facoltà di impugnare e modifiche del procedimento che disciplina l’impugnazione già proposta e afferma che, quando è ancora pendente il termine per il gravame, la disciplina applicabile deve essere quella vigente al momento di emissione del provvedimento oggetto di censura.        Una scelta diversa, la quale privilegiasse la nuova norma, vigente al momento della proposizione dell’impugnazione ma non anche al momento dell’emissione dell’atto gravato, potrebbe condurre ad esiti irragionevoli, attraverso una discriminazione fra posizioni identiche, influenzata da fattori casuali e aleatori.
In definitiva è più che ragionevole ritenere che la facoltà impugnatoria sia disciplinata sulla base della normativa vigente al momento in cui essa, a seguito del deposito dell’atto, viene ad esistenza, poiché è proprio in base a tale momento e a tale disciplina che l’imputato compie le proprie scelte, anche di carattere temporale.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati – agosto 2017

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Studi legali: anche chi non è avvocato può diventare socio

   La recente legge 124/2017 ha introdotto un cambiamento epocale nella struttura e nella stessa idea dello studio legale.
A partire dal prossimo 29 agosto, gli studi legali potranno assumere la forma della società di capitali (ad esempio una Srl), composta oltre che da avvocati anche da soci non appartenenti a tale categoria.
Costoro potranno assumere i più svariati ruoli, mentre i legali si occuperanno dell’attività tipica.
In particolare, i soci laici potranno assumere il ruolo di meri investitori (in un settore che, se gestito con criteri imprenditoriali, può concedere ancora margini piuttosto interessanti), anche se, più probabilmente, si occuperanno in modo attivo di funzioni aziendali che, pur essendo complementari, avranno un ruolo di grande importanza nel nuovo modello strategico di business legale.
Pur se la maggior parte degli avvocati si è detta contraria alla nuova forma societaria, vista l’imminente entrata in vigore sarà senz’altro importante tenere conto delle opportunità offerte da tale strumento, in virtù del quale è possibile ipotizzare uno sviluppo ed un rafforzamento di funzioni tradizionalmente trascurate dal vecchio modello di studio.
Si tratta di funzioni che nella realtà economica contemporanea non solo sono importanti ma costituiscono ormai l’unico strumento in grado di tenere il passo con il grande business della consulenza, che, in barba a disposizioni di legge più o meno cogenti, è già da qualche anno appannaggio di soggetti di chiaro stampo imprenditoriale.
Fra dette funzioni è possibile annoverare:

  • il marketing, in tutte le sue sfaccettature, non ultima quella della pubblicità su piattaforme che oggi hanno costi al di sopra delle capacità del singolo studio;
  • L’informatizzazione avanzata dello studio legale e dei suoi moduli operativi;
  • La gestione della qualità nelle varie fasi di vita del fascicolo di studio;
  • Le sinergie commerciali, come ad esempio la partnership da parte di un imprenditore che abbia interesse a valorizzare il proprio ampio e fidelizzato portafoglio clienti, al fine di introdurre accanto al proprio business tradizionale un nuovo servizio di consulenza legale, con specifico riferimento alle problematiche tipiche del settore economico nel quale già opera;
  • Le sinergie tecniche e professionali, attraverso la partnership di soggetti esperti in settori che supportano l’attività legale in alcune sue particolari direttrici, come ad esempio quello informatico, investigativo, contabile o aziendalistico, criminologico, immobiliare ed edilizio, ecc. e che abbiano interesse a curare attraverso un ente societario i profili che la propria attività offre, in termini di complementarità consulenziale, a beneficio del miglior risultato dell’azione legale;
  • L’esercizio della consulenza legale, in particolare quella on line, attraverso il coordinamento di più legali con apporto multidisciplinare e piattaforme tecnologiche avanzate.

È prevedibile inoltre che l’apporto del socio “esterno” si farà apprezzare per l’introduzione negli studi legali di una mentalità nuova, di cui potranno beneficiare quei professionisti che riterranno di cogliere questa opportunità, accettando la sfida del rinnovamento.
Mentre l’avvocato continuerà a curare gli aspetti giuridici, il partner laico utilizzerà il punto di vista tipico dell’imprenditore e l’esperienza di organizzazione aziendale per accrescere l’efficienza economica della gestione di quel particolare processo produttivo in cui si sostanzia la consulenza e l’assistenza legale.
I timori degli avvocati più tradizionalisti sono comprensibili. La nuova legge potrà andare ad erodere porzioni di clientela ma ciò avverrà, ai danni di chi rimarrà fermo sulle proprie posizioni, sulla scia di un fenomeno che – lo si ripete- già esiste ed è ben consolidato. Si tratta di quelle tecniche di accaparramento e di gestione degli incarichi, fino ad oggi attuate con strumenti subdoli contro i quali né l’avvocatura associata né il sistema giudiziario sono riusciti a fare argine.
Da domani gli imprenditori desiderosi di misurarsi sul terreno legale avranno un canale legittimo per farlo, ricorrendo a compagini societarie connotate dall’ineludibile (e maggioritaria) compartecipazione di professionisti abilitati, i quali, a loro volta, potranno beneficiare di un approccio più professionale all’attività di marketing e, dunque, in ultima analisi di un ampliamento della clientela.

Autore dell’articolo Enrico Leo – agosto 2017 tutti i diritti riservati

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Il crack delle cooperative edilizie

Le cooperative edilizie, come più in generale l’intero fenomeno cooperativistico, nascono per nobili scopi: consentire ai soci di risparmiare nell’acquisto di beni o servizi e, in particolare, di immobili.

La dura realtà dimostra però che, abbastanza spesso, queste società vengono utilizzate da imprenditori senza scrupoli, al fine di realizzare una sostanziale truffa ai danni di soci ignari (che quasi sempre si dimostrano troppo lenti nel rivolgersi ad un avvocato per operare i necessari riscontri).

Vista la diffusione del fenomeno, sono senz’altro opportune alcune brevi precisazioni in proposito.

1)       Il costo degli immobili da assegnare. La difesa più comune dei responsabili dei reati in questione consiste nel dire che la costruzione degli alloggi è costata più del previsto. A supporto di tale alibi, a volte vengono inserite in contabilità fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti, vale a dire fatture che rappresentano costi fittizi (la qual cosa integra gli estremi di un ulteriore reato). Per smascherare subito questo trucco, è indispensabile far eseguire una stima del fabbisogno di costruzione da parte di un tecnico di propria fiducia. Quando necessario si deve impugnare tempestivamente il bilancio di esercizio che recepisca i costi fittizi.

2)       I mutui bancari. Non di rado gli autori dei reati in questione riescono ad ottenere finanziamenti sovrabbondanti rispetto al reale scopo edificatorio, grazie alla complicità di funzionari di banca compiacenti. In questi casi, se non si smaschera subito il fenomeno illecito, si rischia di trovare una amara sorpresa al momento del rogito notarile di assegnazione, sotto forma di accollo di un mutuo molto maggiore del previsto. Occorre dunque agire tempestivamente operando una semplice operazione aritmetica (versamento totale previsto dagli stati di avanzamento + accollo mutuo previsto dal piano finanziario=costo di costruzione; il debito bancario complessivo della cooperativa non deve mai superare la somma dei versamenti per stati di avanzamento più l’accollo mutuo previsto). Quando necessario, si deve agire contro la banca che ha erogato più del dovuto, anche perché, svolgendo gli opportuni approfondimenti, ci si potrà accorgere che la banca, non di rado, avrà utilizzato il mutuo per rivestire di garanzia ipotecaria precedenti linee di credito che erano sfornite di un simile beneficio.

3)       I pagamenti in base al piano finanziario. Tutti i pagamenti devono essere fatti con un mezzo (assegno o bonifico) intestato rigorosamente alla cooperativa. Ciò anche quando viene prospettata la necessità di intestare il versamento ad una società consortile o capogruppo o, peggio, direttamente all’appaltatrice dei lavori. Chi utilizza l’acquisto di un immobile in cooperativa per veicolare i proventi di evasione fiscale, deve essere consapevole del fatto che, oltre a commettere probabilmente un reato (riciclaggio o autoriciclaggio), rischia seriamente di perdere quello che versa.  In caso di fallimento o liquidazione, è infatti difficile farsi riconoscere i versamenti fatti a soggetti diversi dalla fallita.

4)       La trascrizione della domanda giudiziale di trasferimento coattivo dell’immobile. Quando ci si rende conto che il piano di edificazione inizia a presentare seri dubbi di correttezza, è meglio non pensarci su due volte e trascrivere in conservatoria una domanda giudiziale volta ad ottenere l’assegnazione del proprio alloggio.

5)      Il fallimento della cooperativa (o, in alternativa, la sua liquidazione coatta). Gli imprenditori truffaldini, attraverso la gestione illecita delle cooperative pongono in essere delle vere e proprie bancarotte fraudolente ai danni dei soci. E’ dunque fondamentale denunciare per tempo la commissione di tale reato e, contemporaneamente, far dichiarare il fallimento (o lo stato di insolvenza) della società. In sede prefallimentare, la principale linea difensiva del responsabile sarà quella di affermare che la cooperativa non può essere sottoposta a fallimento, in quanto ente mutualistico. Per contro, occorre ricordare che le cooperative che svolgono (anche) attività commerciale possono essere assoggettate al fallimento. Infatti, lo svolgimento di attività commerciale deve essere verificato in concreto, al di là dell’attività mutualistica formalmente dichiarata. Chi richiede il fallimento dovrà solo dimostrare che la raccolta finanziaria operata dalla società (versamenti dei soci + finanziamenti bancari + eventuali altre fonti) è superiore al fabbisogno per la realizzazione degli alloggi e, quindi, non commisurata alle dichiarate finalità mutualistiche. In sostanza, il drenaggio di risorse finanziarie in misura superiore alle necessità mutualistiche fa presumere lo svolgimento di attività commerciale.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

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Consorzio fra imprese: quando la società consortile rende prestazioni nei confronti dei terzi, la rifatturazione da parte delle consorziate non segue una regola fissa ma dipende dalla natura del rapporto interno

   Il consorzio (art. 2602 c.c.), nella sua forma più semplice, si basa su un contratto associativo con il quale più imprenditori disciplinano in modo uniforme alcune fasi produttive delle rispettive aziende (consorzi ad attività interna). Per esempio le attività volte a salvaguardare in modo omogeneo lo standard qualitativo di determinati prodotti di pregio.

   In altri casi, invece, gli imprenditori consorziati creano un nuovo soggetto – spesso una società consortile di capitali – la quale è deputata a portare avanti, in nome proprio ma nell’interesse delle imprese consorziate, una o più fasi dei rispettivi processi produttivi, come lavorazioni, trasporti, servizi tecnici, ecc.

   Si assiste quindi al fenomeno di un società consortile, partecipata da più società consorziate.

   In sostanza, si utilizza la logica del gruppo, secondo quel concetto, ben noto al capitalismo contemporaneo, di “spacchettamento” fra più soggetti formalmente autonomi di un’unica impresa, intesa in senso economico.

   I consorzi di questo tipo operano nel mercato come se fossero delle imprese autonome ma lo fanno con finalità mutualistica, in quanto il loro scopo non è la realizzazione di un utile da dividere tra i soci (consorziati), bensì quello di consentire a costoro il conseguimento di un vantaggio, sub specie di risparmio nei costi di produzione o di aumento dei ricavi generati dalle rispettive imprese.

   La finalità mutualistica della società consortile non le impedisce, però, di ricavare dal mercato i mezzi per il proprio sostentamento, secondo quella logica, propria del moderno diritto dell’economia, per la quale mutualità non vuol dire necessariamente assenza di ricavi o mancanza di economicità di gestione e di imprenditorialità dell’azione.

   I mezzi necessari per far fronte al funzionamento del consorzio, possono perciò essere reperiti in modi diversi, per esempio facendo pagare ai consorziati un corrispettivo a fronte dei servizi consortili oppure trattenendo una percentuale sulle vendite effettuate per loro conto o, ancora, fatturando direttamente ai terzi committenti, con un ricarico, le prestazioni che materialmente saranno eseguite da una o più consorziate.

   In considerazione delle molteplici modalità operative appena esemplificate, appare chiaro che, quando si rende necessario valutare le conseguenze giuridiche di una determinata prestazione resa dal consorzio, occorre ricostruire la sostanza dell’operazione, alla luce della natura del fenomeno consortile e dei rapporti intercorrenti, nel caso concreto, fra la società consortile e le singole consorziate, che con la prima hanno interagito.    

   La mancata considerazione di tutto ciò ha spesso condotto ad un approdo interpretativo erroneo e del tutto superficiale, in cui l’analisi della singola prestazione è stata considerata in modo impropriamente atomistico.

   Una delle più autorevoli e recenti ricostruzioni della fenomenologia consortile fin qui descritta è stata operata da Cassazione SS.UU. nn. 12190 e 12191 del 2016.

   Nel caso esaminato dalla Corte, il Consorzio aveva emesso, nei confronti della committente, una fattura maggiorata rispetto a quella emessa nei suoi confronti dalla consorziata che aveva eseguito materialmente l’appalto.

   Attraverso questo ricarico, il Consorzio aveva inteso trasferire sul prezzo pagato dal terzo committente i propri costi di funzionamento, che, altrimenti, sarebbero andati a gravare sulle imprese consorziate.

   La sentenza, nel ribadire l’importanza di una disamina in concreto delle ragioni che, nel singolo rapporto, hanno determinato la differenza di fatturazione, enumera le evenienze che possono verificarsi in proposito.

   Il minore importo fatturato al Consorzio dalla consorziata che esegue la prestazione può essere giustificato da una ripartizione di costi generali di gestione o da un addebito di costi specifici, legati alla singola commessa. Può essere dovuto al pagamento di provvigioni, da parte della consorziata, per il procacciamento dell’affare o, infine, costituire il corrispettivo delle prestazioni che il Consorzio ha fornito al committente in aggiunta e a completamento di quelle fornite dalla consorziata.

   Ne discende che, per qualsiasi effetto, compresi quelli di ordine fiscale, sarà indispensabile operare una corretta e puntuale ricostruzione della natura delle commesse, al fine di appurare le ragioni poste a base della differenza di fatturazione. 

   La sentenza in commento si è occupata espressamente della problematica di ordine fiscale, relativa al corretto ammontare della fatturazione cui è tenuta la consorziata nei confronti del consorzio.

   La pronuncia però, nella parte in cui prende espressa posizione in ordine alla questione, controversa, della corretta ricostruzione della natura delle società consortili, compone un mosaico in cui le tessere della mutualità si fondono armonicamente con quelle dello svolgimento di autonoma attività lucrativa, dettando un importante principio di diritto.

   Afferma che “La causa consortile non è ostativa allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività commerciale con scopo di lucro. Costituisce questione di merito l’accertamento in ordine ai rapporti intercorsi tra la società consortile e la consorziata … nell’esecuzione delle commesse”.

   E ancora, viene precisato che la società consortile ben può realizzare autonomi ricavi, nascenti dalla rifatturazione, con ricarico, delle prestazioni eseguite in favore del committente da parte di una società consorziata.

   Tali principi possono e devono trovare applicazione anche in controversie diverse da quelle afferenti agli accertamenti fiscali sui ricavi delle consorziate.

   Essi devono costituire lo scenario di riferimento normativo anche per i casi ove venga sottoposto a scrutinio giudiziario il comportamento tributario non già della consorziata ma del terzo committente, addebitando a costui la circostanza di aver ricevuto la fatturazione direttamente dalla società consortile.

   In particolare, attesa la appena richiamata complessità dei rapporti potenzialmente intercorrenti fra società consortile e consorziate, non sarà sufficiente, in tema di riscontro delle fatture inserite in contabilità, dedurre puramente e semplicemente, in danno del committente, una mancata coincidenza fra società consortile che ha emesso la fattura e società consorziata che ha eseguito la parte più qualificante della prestazione fatturata.

   Sarà per contro indispensabile, ove si voglia legittimare la piattaforma sanzionatoria tributaria o penal-tributaria, dimostrare in modo puntuale per quali ragioni nel caso concreto – e con riferimento alla condizione sia oggettiva che soggettiva del terzo committente – non dovrebbe poter operare il meccanismo di rifatturazione descritto dalle Sezioni Unite e fin qui commentato.  

Autore dell’articolo Enrico Leo – maggio 2017 

 

Bancarotta per distrazione: la nuova frontiera richiede che l’atto distrattivo presenti, già al momento della sua esecuzione, una concreta e riconoscibile attitudine a diminuire il patrimonio in modo pericoloso per le ragioni creditorie

Nuova tappa nel tormentato cammino che la Cassazione ha intrapreso da anni, con molti tentennamenti e dietro front, per dare alla bancarotta un profilo più umano, vale a dire più rispettoso del divieto di responsabilità penale oggettiva o di ruolo.

Il problema nasce da quella giurisprudenza, molto diffusa, la quale afferma che qualsiasi atto di diminuzione del patrimonio costituisce bancarotta in caso di successivo fallimento. Anche se tale fallimento intervenga a distanza di molti anni e anche se lo stesso non fosse minimamente prevedibile al momento del compimento dell’azione. Insomma, se vendi a cinque un bene che vale dieci, provochi una diminuzione patrimoniale netta e devi solo sperare di non fallire, poiché se interviene il fallimento, anche a distanza di molti anni e anche per ragioni del tutto indipendenti dalla svendita appena esemplificata, puoi rispondere di bancarotta.

Sul punto il caso Parmalat ha fatto scuola (in senso fortemente negativo per gli imputati), visto che sono state comminate condanne anche per fatti depauperatori posti in essere nel 1992, pur essendo intervenuto il fallimento solo nel 2004.

La sentenza 17819, depositata qualche giorno fa, nel tentativo di farsi carico di questa problematica, esprime i principi che qui di seguito si riassumono.

  1. Nessun problema si pone per quei comportamenti posti in essere in prossimità, cronologica e patrimoniale, dello stato di insolvenza (cosiddetta “zona di rischio penale”) in quanto per essi appare in tutta evidenza l’esistenza e l’accertabilità di un concreto pericolo per le ragioni dei creditori.
  2. Poiché i concetti di prossimità cronologica e patrimoniale sono elastici, occorre valutare attentamente le ipotesi dubbie. Su di esse si incentra l’elaborazione del criterio di discernimento proposto dalla Corte.
  3. L’analisi dell’atto incriminato deve essere condotta con riferimento sia alla sua oggettiva destinazione funzionale, sia alla consapevolezza che di tale destinazione potesse avere il soggetto agente. Per entrambi gli aspetti deve valere il criterio che l’accertamento va condotto “ex ante”, vale a dire sulla base del punto di vista che poteva essere disponibile al momento della sua implementazione e non invece sulla base di quanto sarebbe emerso solo in seguito.
  4. In particolare, ciò che conta è la situazione patrimoniale e finanziaria al momento del compimento dell’atto e non quella frutto, ad esempio, di un successivo tracollo economico non imputabile al soggetto agente.
  5. In sostanza, anche senza arrivare a sposare la teoria che vorrebbe l’esistenza di un vero e proprio nesso di causalità fra l’atto e il dissesto, si arriva oggi a dire che manca un elemento di addebitabilità, quantomeno soggettiva, in quei casi in cui non appaia evidente e non si riesca a dimostrare che al momento dell’atto, ed a causa di questo, si era già venuta a determinare una riconoscibile situazione di pericolo per il soddisfacimento degli interessi dei creditori.
  6. L’introduzione del requisito della congruenza dell’azione rispetto alla messa in pericolo del bene protetto dalla norma, vale a dire del soddisfacimento dei diritti dei creditori, e soprattutto della permanenza di tale congruenza fino alla declaratoria di fallimento, vale ad escludere dall’area di punibilità quelle condotte che, rientrando nel fisiologico azzardo imprenditoriale, apparivano giustificate dal fatto che, in quel momento, il successivo tracollo non era ragionevolmente prevedibile quale conseguenza dell’atto.

Resta da aggiungere che la sentenza appena commentata non solo non risolverà tutte le incertezze ma, ragionevolmente, ne produrrà di ulteriori. Essa, però, ha il pregio di porre l’accento sulla valutazione “ex ante” dell’elemento soggettivo che ha accompagnato l’esecuzione dell’atto.

E’ noto, infatti, che i comportamenti rispetto ai quali occorrere aggiungere chiarezza, a beneficio del sistema economico, sono quelli in cui l’imprenditore assume il rischio di diminuire il patrimonio ma lo fa quale inevitabile conseguenza del mestiere che ha scelto, vale a dire l’assunzione del rischio.

Gli altri, punibili, sono quelli che, a prescindere dal momento in cui vengono realizzati, comportano una coessenziale diminuzione del patrimonio, la quale appare fin da subito priva di qualsiasi giustificazione pertinente al merito imprenditoriale.

Non di rado i giudici confondono i due piani e assumono pronunce che penalizzano il merito manageriale, con un’impropria invasione di campo, la quale tende a giudicare ex post, sul presupposto dell’intervenuto depauperamento, azioni di impresa che presentano il solo difetto di non essere riuscite nel loro intento.

Autore Enrico Leo – aprile 2017

 

 

Nuove regole per la responsabilità penale e civile dei medici

Approvato in via definitiva il disegno di legge Gelli che modifica il regime di responsabilità, sia penale che civile, degli esercenti le professioni sanitarie.

Per quanto riguarda la responsabilità penale, si prevede che, ove l’evento di morte o lesioni sia  stato causato da imperizia, sia per colpa grave che per colpa lieve, la punibilità sia esclusa, a patto che siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di specifica linea guida, le buone pratiche clinico assistenziali.

Tutto ciò a meno che il caso concreto non presenti delle specificità tali da rendere inadeguata l’applicazione delle stesse linee guida.

La nuova norma, dunque, sembrerebbe escludere dalla sua area operativa i casi di negligenza, per i quali non vale l’esclusione di punibilità. Questa distinzione sarà fonte di non poche incertezze nelle aule giudiziarie, visto che, nei casi concreti, è quasi sempre difficile separare nettamente la negligenza dall’imperizia.

Per quanto riguarda, invece, la responsabilità civile, i medici potranno operare con molta maggiore tranquillità. E’ infatti previsto non soltanto che l’azione civile, ove proposta direttamente nei loro confronti,  si debba informare ai canoni, ben più difficoltosi sotto il profilo probatorio, della responsabilità extracontrattuale.

E’ altresì previsto che l’eventuale azione risarcitoria debba essere preceduta da un accertamento tecnico preventivo, con tentativo di conciliazione. Ancora, si è previsto che l’eventuale azione di rivalsa da parte dell’ente ospedaliero nei confronti del sanitario, possa essere esperita solo a seguito dell’ effettivo avvenuto risarcimento e, cosa più importante, è stato posto un tetto massimo oltre il quale il medico non dovrà sopportare le conseguenze economiche del sinistro.

In ogni caso l’ente ospedaliero è obbligato ad assicurarsi sia per la responsabilità contrattuale gravante sulla struttura, sia per la copertura della responsabilità extracontrattuale dei medici che vi operano, per l’ipotesi in cui il danneggiato decida di esperire l’azione risarcitoria direttamente nei loro confronti.

Autore dell’articolo Enrico Leo

Difesa outlet ?

Esistono alcuni siti internet che si occupano di segnalare, a chi sia alla ricerca di un avvocato, lo studio che, per un determinato tipo di causa, pratica il prezzo più basso.

In altri termini, tali siti, dopo aver raccolto il “tariffario” di quegli avvocati che intendono aderire all’iniziativa, eseguono una comparazione basata, a quanto pare, unicamente sul prezzo.

Gli avvocati che aderiscono allo schema e chiedono di essere segnalati con queste modalità,  potrebbero trovarsi a fronteggiare un procedimento disciplinare.

Ma, prescindendo da ciò, è bene riflettere sull’effetto che questo tipo di offerta pubblicitaria determina sul soggetto che ha necessità di tutelare un proprio diritto e, più in generale, sul consumatore.

La comparazione “secca” sul prezzo ha un senso, in termini di aiuto al compimento di una scelta consapevole e vantaggiosa, solo quando avvenga fra prodotti identici.

Fra due lattine di birra della stessa marca sembra ovvio scegliere quella che costa di meno.

Quando però non si tratta di prodotti finiti e comparabili  ma di prestazioni, le quali, per loro natura, non sono suscettibili di arrivare ad un risultato certo e predeterminato, allora la situazione si complica.

Se, per esempio, devo essere difeso in in processo penale delicato, in cui è importante uno studio accurato delle carte processuali, un’esperienza concreta fatta di anni di lavoro, un approccio autorevole con il giudice, un eloquio puntuale e deciso, allora il costo del professionista non può essere l’elemento prioritario e determinante. Scegliere un professionista a caso, basandosi solo sul prezzo richiesto, potrebbe voler dire ottenere un risultato qualitativamente molto peggiore di quello che ci avrebbe fatto ottenere un avvocato diverso.

A questo si aggiunga che, anche per gli avvocati, il fattore tempo è uno dei parametri di cui si deve tener conto nel calcolo della parcella. Nella soluzione della maggior parte dei casi legali, infatti, il tempo dedicato al fascicolo costituisce un elemento determinante.

Vale a dire che più tempo si dedica alla preparazione della difesa e migliore è il risultato che si ottiene. Per contro,  meno si paga, meno tempo ci può essere dedicato.

Autore dell’articolo Enrico Leo

Avvocati generalisti, avanti tutta?

In tutti i settori dell’economia la specializzazione del lavoro è considerata unanimemente un fattore irrinunciabile di efficentizzazione del sistema. Doveva essere così anche per le professioni ma, per ciò che riguarda l’Avvocatura, la crisi dell’economia e del sistema giustizia, negli ultimi anni, ha prodotto un deciso arresto, con successiva retromarcia.

Le cause sono principalmente tre: enorme numero di avvocati, crisi economica generale, inefficienza della macchina della giustizia.

Il sistema giuridizionale non funziona. Qualsiasi cittadino che ne resti coinvolto, finisce per pensare che avere giustizia sia una specie di terno al lotto. E allora o si evita di imbarcarsi nell’impresa o, se proprio non se ne può fare a meno, si cerca di spendere il meno possibile per l’avvocato.  Tanto uno vale l’altro.

La crisi economica accelera e favorisce questo atteggiamento, visto che, quando i soldi sono pochi, si ricorre all’hard discount.

L’enorme numero di avvocati fa da deflagrante. Coloro che giungono ad indossare la toga hanno pur bisogno di guadagnare e, per farsi spazio nel mondo affollato della professione, non trovano nulla di meglio che assumere qualsiasi incarico gli si prospetti, saltando dal civile al penale, all’amministrativo e passando per tutte le specializzazioni interne a ciascuna di queste macro aree.

In questo modo, moderni servi della gleba si sforzano di apparire competenti in qualsiasi settore del diritto. Lavorano giorno e notte per poter mettere insieme quel minimo di cognizioni necessarie a portare avanti i più disparati incarichi che sono riusciti a raggranellare. Guadagnano poco, soprattutto se quel poco è messo a confronto con l’enorme mole di lavoro e di sacrificio e con la responsabilità professionale che si assumono.

Così facendo, gli avvocati contribuiscono a sminuire la già magra considerazione sociale di cui godono.

Accettando corrispettivi inappropriati, innescano una corsa al ribasso delle tariffe e, con essa, la banalizzazione e lo svilimento del lavoro professionale.

Ogni tanto qualcuno di loro alza la testa, inizia a pensare che il gioco non valga la candela e cerca di costruirsi un’alternativa al di fuori della professione forense.

Eppure la risposta più saggia per coloro che possono permetterselo è quella di continuare a coltivare una competenza specifica e approfondita. Un posizionamento chiaro e preciso nel mercato dei servizi legali alla fine intercetterà l’onda lunga dei clienti migliori e delle scelte strategiche che perseguono un obiettivo posto al di là delle contingenze e delle congiunture.

Autore dell’articolo Enrico Leo

Fondo patrimoniale e intestazioni di beni a terzi: l’imputato si salva dal sequestro solo a determinate condizioni

   Com’è noto, il Pubblico Ministero e la parte civile possono chiedere al giudice il sequestro conservativo dei beni dell’imputato, soprattutto per “bloccare” risorse  utili ai fini del risarcimento del danno causato dal reato.

  Per esempio, in caso di bancarotta o di reato tributario, viene richiesto il sequestro dei beni dell’amministratore della società responsabile del crack o della fraudolenta evasione di imposta.

   Questi sono i principali casi che possono presentarsi:

– trattandosi di fondo patrimoniale, oltre a quanto si dirà in seguito con riferimento agli atti a titolo gratuito, occorre considerare che la legge salvaguarda i beni del fondo per i debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, la qual cosa può porre dubbi interpretativi quando si ha a che fare con obbligazioni risarcitorie che nascono da alcuni tipi di reato, come ad esempio quelli tributari, visto che in simili ipotesi non è sempre facile verificare l’estraneità ai bisogni familiari dell’obbligazione rimasta inadempiuta;

– trattandosi, invece, di polizza assicurativa sulla vita, occorre verificarne la natura di strumento previdenziale o, per contro, di strumento finanziario;

– in ogni altro, caso occorre verificare la pignorabilità dei beni o diritti che si intende sottoporre a sequestro, secondo le regole civilistiche valide per specifiche categorie di beni o rapporti;

– quando i beni di cui si chiede il “blocco” sono formalmente intestati a terzi, è poi necessario verificare la natura dell’atto con cui detti terzi li hanno acquisiti, al fine di accertare se la formale intestazione sia da considerare inefficace rispetto al sequestro o, viceversa, possa validamente arginarlo. A questo proposito si possono indicare:

      ● atti dispositivi a titolo gratuito compiuti dall’imputato dopo la commissione del reato, i quali sono sempre travolti dal sequestro;

      ● atti a titolo gratuito compiuti nell’anno precedente la commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova l’intento frodatorio;

     ● atti a titolo gratuito o oneroso compiuti in epoca risalente a più di un anno prima della commissione del reato, che non sono mai travolti dal sequestro;

   ● atti a titolo oneroso eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti dall’imputato dopo la commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova la mala fede dell’acquirente;

   ● atti a titolo oneroso eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti dall’imputato in epoca risalente a non più di un anno prima della commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova la mala fede sia dell’imputato che dell’acquirente;

      ● atti rientranti nel disposto dell’art. 64 legge fallimentare, con riferimento ai reati previsti dalla medesima legge.

   In tutte le predette ipotesi, che rientrano nel concetto di revocatoria penale, l’accertamento dei fatti che legittimano l’apprensione del bene intestato a terzi ed il suo utilizzo per pagare il risarcimento del danno causato dall’imputato o per gli altri fini di giustizia penale, avviene in sede penale e trova il suo terreno d’elezione proprio al momento della richiesta di sequestro.

   Ne deriva la necessità, sia per la parte civile che per la difesa dell’imputato, di introdurre nel processo elementi probatori idonei a sostenere la sequestrabilità di determinati beni o, viceversa, la loro intangibilità.

  Considerando che, accanto alle statuizioni sulla libertà personale, l’odierno processo penale si occupa di rilevanti questioni economiche legate al reato e che, molto spesso, queste ultime colpiscono prima e più duramente delle prime, si rende indispensabile preparare per tempo una difesa efficace anche con riferimento agli aspetti patrimoniali fin qui richiamati.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

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