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Trust e imposta di registro 

Secondo Cassazione, sez. V civile, n. 15469 del 13.6.18, l’atto costitutivo del Trust sconta le imposte di registro e quelle ipotecarie e catastali in misura fissa.

Si richiamano e confermano in proposito precedenti pronunce della stessa Corte, secondo le quali è da escludere che il conferimento dei beni in trust dia luogo ad un reale trasferimento imponibile.

Al contrario, il programma negoziale tipico di tale istituto prevede la mera segregazione dei beni, fino al trasferimento vero e proprio in favore dei reali destinatari.

Chiarisce la Corte che le operazioni di carattere patrimoniale, rilevanti ai sensi dell’art. 43, 1° co. lett. h dpr 131/1986, sono quelle in cui vi è un ammontare di corrispettivi in denaro pattuiti per l’intera durata del contratto, i quali costituiscono la base imponibile.

Nel caso del trust, invece, non essendovi prestazione o corrispettivo a carico del trustee, non può parlarsi di operazione a carattere patrimoniale nel senso sopra richiamato, tale da essere soggetta all’imposta proporzionale ai sensi dell’art. 9 della tariffa.

 

Accesso da parte di Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza alle informazioni in materia di antiriciclaggio

Il Consiglio dei Ministri ha approvato ieri, 16 5 18, il decreto legislativo di recepimento della direttiva n. 2016/2258/UE, che prevede l’accesso, da parte delle autorità fiscali (per noi Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza), alle informazioni in materia di antiriciclaggio, raccolte e conservate dai soggetti tenuti all’adeguata verifica, fra cui principalmente gli intermediari finanziari.

Nello specifico, la direttiva prevede che sia disposto per legge, con decorrenza dal 1 gennaio 2018, l’accesso da parte delle autorità fiscali ai documenti e alle informazioni in materia di adeguata verifica della clientela e con riferimento alla titolarità effettiva di società e altre entità giuridiche fra cui i trust.Per lo stesso fine potrà essere esercitato l’accesso all’apposita sezione del Registro delle imprese.

Tali dati potranno essere utilizzati, attraverso appositi servizi di collegamento, per lo scambio di informazioni fra stati membri.

Per i primi approfondimenti, http://www.governo.it/sites/governo.it/files/Relazione%20Illustrativa_3.pdf

In vigore le nuove tabelle per i compensi degli avvocati 

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale entrano in vigore oggi, 27 aprile 2018, le modifiche apportate dal Ministero della Giustizia alle tabelle per la determinazione dei compensi per gli avvocati.

Il Parlamento Europeo estende la IV direttiva antiriciclaggio alla gestione dei portafogli virtuali

Esteso l’ambito di applicazione della IV direttiva ai prestatori di servizi di cambio tra valute virtuali e valute legali e ai prestatori di servizi di portafoglio digitale. Stabilite regole più stringenti per le piattaforme di valute virtuali e carte di credito anonime prepagate al fine di controllare l’uso delle valute virtuali.

La domanda di equa riparazione per irragionevole ritardo nella definizione del giudizio può essere proposta anche prima della conclusione del procedimento

La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la “legge Pinto”, nata per prevenire e indennizzare i ritardi causati dalla lentezza della giustizia, quando non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento in cui è maturato l’irragionevole ritardo.

 

Per approfondimenti 

Frodi Iva: la prescrizione del reato dopo la sentenza Taricco 2

La Corte di Giustizia UE, sollecitata dalla Corte Costituzionale, ritorna sul tema dei termini di prescrizione delle frodi Iva e precisa meglio i limiti della propria prima pronuncia.

Tale prima sentenza aveva disposto una possibile disapplicazione della normativa italiana sulla prescrizione, in quanto troppo lassista e per questo non idonea a costituire un serio deterrente per quei gravi reati che, sottraendo gettito Iva – imposta destinata a far fronte agli obblighi di contribuzione degli stati membri – danneggiano gli interessi finanziari dell’Unione.

Leggi tutto “Frodi Iva: la prescrizione del reato dopo la sentenza Taricco 2”

La lunga e tormentata storia della responsabilità penale del medico alla prova dell’ultimo capitolo, scritto dalle Sezioni Unite del 21 12 17

Fino a una trentina di anni fa la giurisprudenza penale in tema di colpa medica, con riferimento ai delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose causati da imperizia (non quindi nei casi di pura negligenza o imprudenza), ne limitava la responsabilità alle ipotesi di colpa grave. Tale orientamento si rifaceva all’articolo 2236 del codice civile, il quale, com’è noto, prevede che il professionista intellettuale, ove la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.
Si trattava, in sostanza, di una trasposizione della norma civilistica in area penale, operazione che poteva dirsi legittima (e come vedremo, almeno in parte, lo può tutt’ora) seppure nei limiti dell’ambito di riferimento, che sono quelli della dedotta violazione delle leges artis e con riferimento alla soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.
In questo senso, la detta trasposizione era stata avallata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 166 del 1973.
La detta risalente giurisprudenza, però, aveva raccolto critiche di eccessiva benevolenza, avendo finito per ritenere che l’area del “problema tecnico di speciale difficoltà” fosse l’ordinario terreno di svolgimento della professione medica, la quale doveva essere esentata da pena per le ipotesi di colpa non grave.
Tale indirizzo è stato quindi rivisto dalla successiva giurisprudenza di legittimità, che, negando l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. al diritto penale, ha affermato che nella materia in questione debbano trovare spazio solo gli ordinari criteri di valutazione della colpa di cui all’art. 43 c.p. Leggi tutto “La lunga e tormentata storia della responsabilità penale del medico alla prova dell’ultimo capitolo, scritto dalle Sezioni Unite del 21 12 17”

Avvocati, l’obbligo di preventivo previsto dalla legge 124/2017

Abbiamo già scritto il nostro pensiero sul cosiddetto obbligo di preventivo, introdotto dalla recente legge 124/2017 e sulle riflessioni che tale previsione induce, con riferimento al tema, più ampio, dell’essenza stessa del mandato professionale (https://www.leoleg61.it/wordpress/2017/09/05/il-preventivo-e-le-altre-istruzioni-per-scegliere-lavvocato-giusto-e-per-intrattenere-un-soddisfacente-rapporto-professionale/)

Facciamo nostro ora lo schema di mandato professionale proposto dal Movimento Forense, il quale è destinato a regolamentare il rapporto fra avvocato e assistito con riferimento a un determinato incarico.

Si tratta, com’è comprensibile, di una regolamentazione che investe innanzitutto l’assetto economico, il cosiddetto costo della causa o dell’assistenza stragiudiziale.

Con l’avvertenza che, ai fini di un soddisfacente rapporto con il proprio avvocato, il dato puramente economico è importante ma non determinante. L’aspetto di gran lunga più importante riguarda l’affidamento fiduciario che ciascuno deve poter “sentire” e coltivare verso il professionista di riferimento.

Un’attenzione particolare va poi destinata alla corretta definizione dell’oggetto dell’incarico, poiché una delimitazione poco chiara di tale ambito rischia di vanificare la funzione definitoria e convenzionale del mandato scritto.

Attraverso la pubblicazione di questo schema, miriamo a fornire un’informazione preventiva a beneficio dei potenziali clienti, i quali potranno leggere con calma il contenuto del mandato, chiedere chiarimenti e proporre modifiche e, in ultima analisi, arrivare più preparati al momento della sottoscrizione.

Lo schema di incarico professionale

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati – settembre 2017
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Il preventivo e le altre istruzioni per scegliere l’avvocato giusto (e per intrattenere un soddisfacente rapporto professionale)

Prima di richiedere un preventivo per un’azione legale leggi questo post e dicci che ne pensi

 Chi intende contattare un avvocato[1] può farlo sia fisicamente che tramite un canale telematico, come una videoconferenza o uno scambio di email.

In ogni caso, per prima cosa, deve avere le idee chiare su alcuni punti:

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[1] Dell’avvocato può avere bisogno un ente, come ad esempio una società, o una persona fisica. Per gli enti medio/grandi valgono regole per alcuni aspetti diverse da quelle esposte in questo articolo.

 

L’imputato non può più proporre personalmente il ricorso per cassazione. Qualche dubbio sul regime intertemporale

  Com’è noto, nel processo penale, in nome del principio di favore per le impugnazioni, è consentito all’imputato ricorrere contro la condanna anche personalmente, vale a dire con atto a propria firma. Il principio trova ragione nella presunzione di innocenza e nella conseguente volontà di ampliare il più possibile le strade che sono concesse al cittadino per dimostrare la propria.
Ma si sa, in periodi di difficoltà i princìpi lasciano spazio alle emergenze e le regole emergenziali, piano piano, diventano stabili norme di condotta. È così che quella strada concessa all’imputato per dimostrare (quando c’è) la propria innocenza, è divenuta negli anni, riforma dopo riforma, un sentiero stretto e disseminato di ostacoli, poiché l’obiettivo prioritario di una giurisdizione affogata nel mare dei procedimenti pendenti, sembra essere quello di farne saltare il maggior numero possibile sulle mine dell’inammissibilità.
La riforma introdotta dalla legge 103/2017, fra le altre cose, ha posto ulteriori limiti alle impugnazioni, volti in tesi a renderle più tecniche e per questo più specifiche, con conseguente corredo di sanzioni di inammissibilità.
In questo quadro è stato eliminato il diritto dell’imputato a ricorrere in Cassazione con un atto a propria firma (o, come accadeva più di frequente, con un atto da lui sottoscritto ma preparato da un avvocato non ancora abilitato al patrocinio in cassazione).
Di conseguenza, dal 3 agosto 2017, il ricorso per cassazione potrà essere presentato solo da un avvocato cassazionista, che si suppone sia in grado di interpretare ed applicare la griglia normativa, al fine di riuscire nel non facile compito di far passare i motivi attraverso le maglie strette della Curia di legittimità.
Sia detto per inciso che questa rigida griglia normativa costituisce una ben netta linea di tendenza, anche al di là del tema delle impugnazioni. Essa, accompagnata da vari protocolli (o best practice) di valore più o meno negoziale e regolamentare, è tutta tesa a tarpare le ali alla fantasia letteraria e alla fluente eloquenza avvocatesca e costituisce, nella sua zelante cura, volta a standardizzare le tecniche di redazione degli atti e finanche i caratteri tipografici, l’anticamera della (semi) informatizzazione della decisione.
La Corte di Cassazione, nel lodevole intento di fornire linee guida per i primi momenti di applicazione della riforma, ha assunto due documenti (http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Appunto_legge_n_103_del_2017.pdf del 24 luglio e http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/LINEE_GUIDA_Legge_103_2017.pdf del 28 luglio), il secondo dei quali – forse eccessivamente sintetico – sul punto che ci interessa detta un orientamento apparentemente irragionevole e comunque in netto contrasto con il contenuto del primo, costituito da quella relazione dell’Ufficio del massimario, commissionata proprio quale base per le linee guida.
Le linee guida affermano testualmente “la disposizione è applicabile ai ricorsi proposti personalmente dall’imputato dopo l’entrata in vigore della legge, anche se riferiti a provvedimenti emessi in data anteriore.”
In modo opposto ha concluso invece il Massimario, il quale si è espresso ragionevolmente e motivatamente, sulla scorta di autorevole e consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite.
In particolare, a pagina tre, la relazione del Massimario tratta del principio “tempus regit actum”, ricordando che, in forza di tale regola, la novella procedurale si applica immediatamente, salvo che per gli atti in corso di compimento e con effetti non ancora perfezionati.
Sullo specifico tema del regime intermedio delle impugnazioni, si richiama SS.UU. 27614/2007, Lista, la quale è stata costantemente applicata dalla giurisprudenza successiva. Tale sentenza distingue fra modifiche che si riferiscono alle modalità di esercizio della facoltà di impugnare e modifiche del procedimento che disciplina l’impugnazione già proposta e afferma che, quando è ancora pendente il termine per il gravame, la disciplina applicabile deve essere quella vigente al momento di emissione del provvedimento oggetto di censura.        Una scelta diversa, la quale privilegiasse la nuova norma, vigente al momento della proposizione dell’impugnazione ma non anche al momento dell’emissione dell’atto gravato, potrebbe condurre ad esiti irragionevoli, attraverso una discriminazione fra posizioni identiche, influenzata da fattori casuali e aleatori.
In definitiva è più che ragionevole ritenere che la facoltà impugnatoria sia disciplinata sulla base della normativa vigente al momento in cui essa, a seguito del deposito dell’atto, viene ad esistenza, poiché è proprio in base a tale momento e a tale disciplina che l’imputato compie le proprie scelte, anche di carattere temporale.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati – agosto 2017

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Studi legali: anche chi non è avvocato può diventare socio

   La recente legge 124/2017 ha introdotto un cambiamento epocale nella struttura e nella stessa idea dello studio legale.
A partire dal prossimo 29 agosto, gli studi legali potranno assumere la forma della società di capitali (ad esempio una Srl), composta oltre che da avvocati anche da soci non appartenenti a tale categoria.
Costoro potranno assumere i più svariati ruoli, mentre i legali si occuperanno dell’attività tipica.
In particolare, i soci laici potranno assumere il ruolo di meri investitori (in un settore che, se gestito con criteri imprenditoriali, può concedere ancora margini piuttosto interessanti), anche se, più probabilmente, si occuperanno in modo attivo di funzioni aziendali che, pur essendo complementari, avranno un ruolo di grande importanza nel nuovo modello strategico di business legale.
Pur se la maggior parte degli avvocati si è detta contraria alla nuova forma societaria, vista l’imminente entrata in vigore sarà senz’altro importante tenere conto delle opportunità offerte da tale strumento, in virtù del quale è possibile ipotizzare uno sviluppo ed un rafforzamento di funzioni tradizionalmente trascurate dal vecchio modello di studio.
Si tratta di funzioni che nella realtà economica contemporanea non solo sono importanti ma costituiscono ormai l’unico strumento in grado di tenere il passo con il grande business della consulenza, che, in barba a disposizioni di legge più o meno cogenti, è già da qualche anno appannaggio di soggetti di chiaro stampo imprenditoriale.
Fra dette funzioni è possibile annoverare:

  • il marketing, in tutte le sue sfaccettature, non ultima quella della pubblicità su piattaforme che oggi hanno costi al di sopra delle capacità del singolo studio;
  • L’informatizzazione avanzata dello studio legale e dei suoi moduli operativi;
  • La gestione della qualità nelle varie fasi di vita del fascicolo di studio;
  • Le sinergie commerciali, come ad esempio la partnership da parte di un imprenditore che abbia interesse a valorizzare il proprio ampio e fidelizzato portafoglio clienti, al fine di introdurre accanto al proprio business tradizionale un nuovo servizio di consulenza legale, con specifico riferimento alle problematiche tipiche del settore economico nel quale già opera;
  • Le sinergie tecniche e professionali, attraverso la partnership di soggetti esperti in settori che supportano l’attività legale in alcune sue particolari direttrici, come ad esempio quello informatico, investigativo, contabile o aziendalistico, criminologico, immobiliare ed edilizio, ecc. e che abbiano interesse a curare attraverso un ente societario i profili che la propria attività offre, in termini di complementarità consulenziale, a beneficio del miglior risultato dell’azione legale;
  • L’esercizio della consulenza legale, in particolare quella on line, attraverso il coordinamento di più legali con apporto multidisciplinare e piattaforme tecnologiche avanzate.

È prevedibile inoltre che l’apporto del socio “esterno” si farà apprezzare per l’introduzione negli studi legali di una mentalità nuova, di cui potranno beneficiare quei professionisti che riterranno di cogliere questa opportunità, accettando la sfida del rinnovamento.
Mentre l’avvocato continuerà a curare gli aspetti giuridici, il partner laico utilizzerà il punto di vista tipico dell’imprenditore e l’esperienza di organizzazione aziendale per accrescere l’efficienza economica della gestione di quel particolare processo produttivo in cui si sostanzia la consulenza e l’assistenza legale.
I timori degli avvocati più tradizionalisti sono comprensibili. La nuova legge potrà andare ad erodere porzioni di clientela ma ciò avverrà, ai danni di chi rimarrà fermo sulle proprie posizioni, sulla scia di un fenomeno che – lo si ripete- già esiste ed è ben consolidato. Si tratta di quelle tecniche di accaparramento e di gestione degli incarichi, fino ad oggi attuate con strumenti subdoli contro i quali né l’avvocatura associata né il sistema giudiziario sono riusciti a fare argine.
Da domani gli imprenditori desiderosi di misurarsi sul terreno legale avranno un canale legittimo per farlo, ricorrendo a compagini societarie connotate dall’ineludibile (e maggioritaria) compartecipazione di professionisti abilitati, i quali, a loro volta, potranno beneficiare di un approccio più professionale all’attività di marketing e, dunque, in ultima analisi di un ampliamento della clientela.

Autore dell’articolo Enrico Leo – agosto 2017 tutti i diritti riservati

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Il crack delle cooperative edilizie

Le cooperative edilizie, come più in generale l’intero fenomeno cooperativistico, nascono per nobili scopi: consentire ai soci di risparmiare nell’acquisto di beni o servizi e, in particolare, di immobili.

La dura realtà dimostra però che, abbastanza spesso, queste società vengono utilizzate da imprenditori senza scrupoli, al fine di realizzare una sostanziale truffa ai danni di soci ignari (che quasi sempre si dimostrano troppo lenti nel rivolgersi ad un avvocato per operare i necessari riscontri).

Vista la diffusione del fenomeno, sono senz’altro opportune alcune brevi precisazioni in proposito.

1)       Il costo degli immobili da assegnare. La difesa più comune dei responsabili dei reati in questione consiste nel dire che la costruzione degli alloggi è costata più del previsto. A supporto di tale alibi, a volte vengono inserite in contabilità fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti, vale a dire fatture che rappresentano costi fittizi (la qual cosa integra gli estremi di un ulteriore reato). Per smascherare subito questo trucco, è indispensabile far eseguire una stima del fabbisogno di costruzione da parte di un tecnico di propria fiducia. Quando necessario si deve impugnare tempestivamente il bilancio di esercizio che recepisca i costi fittizi.

2)       I mutui bancari. Non di rado gli autori dei reati in questione riescono ad ottenere finanziamenti sovrabbondanti rispetto al reale scopo edificatorio, grazie alla complicità di funzionari di banca compiacenti. In questi casi, se non si smaschera subito il fenomeno illecito, si rischia di trovare una amara sorpresa al momento del rogito notarile di assegnazione, sotto forma di accollo di un mutuo molto maggiore del previsto. Occorre dunque agire tempestivamente operando una semplice operazione aritmetica (versamento totale previsto dagli stati di avanzamento + accollo mutuo previsto dal piano finanziario=costo di costruzione; il debito bancario complessivo della cooperativa non deve mai superare la somma dei versamenti per stati di avanzamento più l’accollo mutuo previsto). Quando necessario, si deve agire contro la banca che ha erogato più del dovuto, anche perché, svolgendo gli opportuni approfondimenti, ci si potrà accorgere che la banca, non di rado, avrà utilizzato il mutuo per rivestire di garanzia ipotecaria precedenti linee di credito che erano sfornite di un simile beneficio.

3)       I pagamenti in base al piano finanziario. Tutti i pagamenti devono essere fatti con un mezzo (assegno o bonifico) intestato rigorosamente alla cooperativa. Ciò anche quando viene prospettata la necessità di intestare il versamento ad una società consortile o capogruppo o, peggio, direttamente all’appaltatrice dei lavori. Chi utilizza l’acquisto di un immobile in cooperativa per veicolare i proventi di evasione fiscale, deve essere consapevole del fatto che, oltre a commettere probabilmente un reato (riciclaggio o autoriciclaggio), rischia seriamente di perdere quello che versa.  In caso di fallimento o liquidazione, è infatti difficile farsi riconoscere i versamenti fatti a soggetti diversi dalla fallita.

4)       La trascrizione della domanda giudiziale di trasferimento coattivo dell’immobile. Quando ci si rende conto che il piano di edificazione inizia a presentare seri dubbi di correttezza, è meglio non pensarci su due volte e trascrivere in conservatoria una domanda giudiziale volta ad ottenere l’assegnazione del proprio alloggio.

5)      Il fallimento della cooperativa (o, in alternativa, la sua liquidazione coatta). Gli imprenditori truffaldini, attraverso la gestione illecita delle cooperative pongono in essere delle vere e proprie bancarotte fraudolente ai danni dei soci. E’ dunque fondamentale denunciare per tempo la commissione di tale reato e, contemporaneamente, far dichiarare il fallimento (o lo stato di insolvenza) della società. In sede prefallimentare, la principale linea difensiva del responsabile sarà quella di affermare che la cooperativa non può essere sottoposta a fallimento, in quanto ente mutualistico. Per contro, occorre ricordare che le cooperative che svolgono (anche) attività commerciale possono essere assoggettate al fallimento. Infatti, lo svolgimento di attività commerciale deve essere verificato in concreto, al di là dell’attività mutualistica formalmente dichiarata. Chi richiede il fallimento dovrà solo dimostrare che la raccolta finanziaria operata dalla società (versamenti dei soci + finanziamenti bancari + eventuali altre fonti) è superiore al fabbisogno per la realizzazione degli alloggi e, quindi, non commisurata alle dichiarate finalità mutualistiche. In sostanza, il drenaggio di risorse finanziarie in misura superiore alle necessità mutualistiche fa presumere lo svolgimento di attività commerciale.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

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Consorzio fra imprese: quando la società consortile rende prestazioni nei confronti dei terzi, la rifatturazione da parte delle consorziate non segue una regola fissa ma dipende dalla natura del rapporto interno

   Il consorzio (art. 2602 c.c.), nella sua forma più semplice, si basa su un contratto associativo con il quale più imprenditori disciplinano in modo uniforme alcune fasi produttive delle rispettive aziende (consorzi ad attività interna). Per esempio le attività volte a salvaguardare in modo omogeneo lo standard qualitativo di determinati prodotti di pregio.

   In altri casi, invece, gli imprenditori consorziati creano un nuovo soggetto – spesso una società consortile di capitali – la quale è deputata a portare avanti, in nome proprio ma nell’interesse delle imprese consorziate, una o più fasi dei rispettivi processi produttivi, come lavorazioni, trasporti, servizi tecnici, ecc.

   Si assiste quindi al fenomeno di un società consortile, partecipata da più società consorziate.

   In sostanza, si utilizza la logica del gruppo, secondo quel concetto, ben noto al capitalismo contemporaneo, di “spacchettamento” fra più soggetti formalmente autonomi di un’unica impresa, intesa in senso economico.

   I consorzi di questo tipo operano nel mercato come se fossero delle imprese autonome ma lo fanno con finalità mutualistica, in quanto il loro scopo non è la realizzazione di un utile da dividere tra i soci (consorziati), bensì quello di consentire a costoro il conseguimento di un vantaggio, sub specie di risparmio nei costi di produzione o di aumento dei ricavi generati dalle rispettive imprese.

   La finalità mutualistica della società consortile non le impedisce, però, di ricavare dal mercato i mezzi per il proprio sostentamento, secondo quella logica, propria del moderno diritto dell’economia, per la quale mutualità non vuol dire necessariamente assenza di ricavi o mancanza di economicità di gestione e di imprenditorialità dell’azione.

   I mezzi necessari per far fronte al funzionamento del consorzio, possono perciò essere reperiti in modi diversi, per esempio facendo pagare ai consorziati un corrispettivo a fronte dei servizi consortili oppure trattenendo una percentuale sulle vendite effettuate per loro conto o, ancora, fatturando direttamente ai terzi committenti, con un ricarico, le prestazioni che materialmente saranno eseguite da una o più consorziate.

   In considerazione delle molteplici modalità operative appena esemplificate, appare chiaro che, quando si rende necessario valutare le conseguenze giuridiche di una determinata prestazione resa dal consorzio, occorre ricostruire la sostanza dell’operazione, alla luce della natura del fenomeno consortile e dei rapporti intercorrenti, nel caso concreto, fra la società consortile e le singole consorziate, che con la prima hanno interagito.    

   La mancata considerazione di tutto ciò ha spesso condotto ad un approdo interpretativo erroneo e del tutto superficiale, in cui l’analisi della singola prestazione è stata considerata in modo impropriamente atomistico.

   Una delle più autorevoli e recenti ricostruzioni della fenomenologia consortile fin qui descritta è stata operata da Cassazione SS.UU. nn. 12190 e 12191 del 2016.

   Nel caso esaminato dalla Corte, il Consorzio aveva emesso, nei confronti della committente, una fattura maggiorata rispetto a quella emessa nei suoi confronti dalla consorziata che aveva eseguito materialmente l’appalto.

   Attraverso questo ricarico, il Consorzio aveva inteso trasferire sul prezzo pagato dal terzo committente i propri costi di funzionamento, che, altrimenti, sarebbero andati a gravare sulle imprese consorziate.

   La sentenza, nel ribadire l’importanza di una disamina in concreto delle ragioni che, nel singolo rapporto, hanno determinato la differenza di fatturazione, enumera le evenienze che possono verificarsi in proposito.

   Il minore importo fatturato al Consorzio dalla consorziata che esegue la prestazione può essere giustificato da una ripartizione di costi generali di gestione o da un addebito di costi specifici, legati alla singola commessa. Può essere dovuto al pagamento di provvigioni, da parte della consorziata, per il procacciamento dell’affare o, infine, costituire il corrispettivo delle prestazioni che il Consorzio ha fornito al committente in aggiunta e a completamento di quelle fornite dalla consorziata.

   Ne discende che, per qualsiasi effetto, compresi quelli di ordine fiscale, sarà indispensabile operare una corretta e puntuale ricostruzione della natura delle commesse, al fine di appurare le ragioni poste a base della differenza di fatturazione. 

   La sentenza in commento si è occupata espressamente della problematica di ordine fiscale, relativa al corretto ammontare della fatturazione cui è tenuta la consorziata nei confronti del consorzio.

   La pronuncia però, nella parte in cui prende espressa posizione in ordine alla questione, controversa, della corretta ricostruzione della natura delle società consortili, compone un mosaico in cui le tessere della mutualità si fondono armonicamente con quelle dello svolgimento di autonoma attività lucrativa, dettando un importante principio di diritto.

   Afferma che “La causa consortile non è ostativa allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività commerciale con scopo di lucro. Costituisce questione di merito l’accertamento in ordine ai rapporti intercorsi tra la società consortile e la consorziata … nell’esecuzione delle commesse”.

   E ancora, viene precisato che la società consortile ben può realizzare autonomi ricavi, nascenti dalla rifatturazione, con ricarico, delle prestazioni eseguite in favore del committente da parte di una società consorziata.

   Tali principi possono e devono trovare applicazione anche in controversie diverse da quelle afferenti agli accertamenti fiscali sui ricavi delle consorziate.

   Essi devono costituire lo scenario di riferimento normativo anche per i casi ove venga sottoposto a scrutinio giudiziario il comportamento tributario non già della consorziata ma del terzo committente, addebitando a costui la circostanza di aver ricevuto la fatturazione direttamente dalla società consortile.

   In particolare, attesa la appena richiamata complessità dei rapporti potenzialmente intercorrenti fra società consortile e consorziate, non sarà sufficiente, in tema di riscontro delle fatture inserite in contabilità, dedurre puramente e semplicemente, in danno del committente, una mancata coincidenza fra società consortile che ha emesso la fattura e società consorziata che ha eseguito la parte più qualificante della prestazione fatturata.

   Sarà per contro indispensabile, ove si voglia legittimare la piattaforma sanzionatoria tributaria o penal-tributaria, dimostrare in modo puntuale per quali ragioni nel caso concreto – e con riferimento alla condizione sia oggettiva che soggettiva del terzo committente – non dovrebbe poter operare il meccanismo di rifatturazione descritto dalle Sezioni Unite e fin qui commentato.  

Autore dell’articolo Enrico Leo – maggio 2017 

 

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