Fondo patrimoniale e intestazioni di beni a terzi: l’imputato si salva dal sequestro solo a determinate condizioni

   Com’è noto, il Pubblico Ministero e la parte civile possono chiedere al giudice il sequestro conservativo dei beni dell’imputato, soprattutto per “bloccare” risorse  utili ai fini del risarcimento del danno causato dal reato.

  Per esempio, in caso di bancarotta o di reato tributario, viene richiesto il sequestro dei beni dell’amministratore della società responsabile del crack o della fraudolenta evasione di imposta.

   Questi sono i principali casi che possono presentarsi:

– trattandosi di fondo patrimoniale, oltre a quanto si dirà in seguito con riferimento agli atti a titolo gratuito, occorre considerare che la legge salvaguarda i beni del fondo per i debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, la qual cosa può porre dubbi interpretativi quando si ha a che fare con obbligazioni risarcitorie che nascono da alcuni tipi di reato, come ad esempio quelli tributari, visto che in simili ipotesi non è sempre facile verificare l’estraneità ai bisogni familiari dell’obbligazione rimasta inadempiuta;

– trattandosi, invece, di polizza assicurativa sulla vita, occorre verificarne la natura di strumento previdenziale o, per contro, di strumento finanziario;

– in ogni altro, caso occorre verificare la pignorabilità dei beni o diritti che si intende sottoporre a sequestro, secondo le regole civilistiche valide per specifiche categorie di beni o rapporti;

– quando i beni di cui si chiede il “blocco” sono formalmente intestati a terzi, è poi necessario verificare la natura dell’atto con cui detti terzi li hanno acquisiti, al fine di accertare se la formale intestazione sia da considerare inefficace rispetto al sequestro o, viceversa, possa validamente arginarlo. A questo proposito si possono indicare:

      ● atti dispositivi a titolo gratuito compiuti dall’imputato dopo la commissione del reato, i quali sono sempre travolti dal sequestro;

      ● atti a titolo gratuito compiuti nell’anno precedente la commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova l’intento frodatorio;

     ● atti a titolo gratuito o oneroso compiuti in epoca risalente a più di un anno prima della commissione del reato, che non sono mai travolti dal sequestro;

   ● atti a titolo oneroso eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti dall’imputato dopo la commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova la mala fede dell’acquirente;

   ● atti a titolo oneroso eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti dall’imputato in epoca risalente a non più di un anno prima della commissione del reato, i quali sono travolti dal sequestro se si prova la mala fede sia dell’imputato che dell’acquirente;

      ● atti rientranti nel disposto dell’art. 64 legge fallimentare, con riferimento ai reati previsti dalla medesima legge.

   In tutte le predette ipotesi, che rientrano nel concetto di revocatoria penale, l’accertamento dei fatti che legittimano l’apprensione del bene intestato a terzi ed il suo utilizzo per pagare il risarcimento del danno causato dall’imputato o per gli altri fini di giustizia penale, avviene in sede penale e trova il suo terreno d’elezione proprio al momento della richiesta di sequestro.

   Ne deriva la necessità, sia per la parte civile che per la difesa dell’imputato, di introdurre nel processo elementi probatori idonei a sostenere la sequestrabilità di determinati beni o, viceversa, la loro intangibilità.

  Considerando che, accanto alle statuizioni sulla libertà personale, l’odierno processo penale si occupa di rilevanti questioni economiche legate al reato e che, molto spesso, queste ultime colpiscono prima e più duramente delle prime, si rende indispensabile preparare per tempo una difesa efficace anche con riferimento agli aspetti patrimoniali fin qui richiamati.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

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Il fallito può mentire al curatore? Obbligo di verità, facoltà di mentire e pericolo di autoincriminazione: tre possibili prospettive delle dichiarazioni rese agli organi fallimentari

Il fallito, vale a dire l’imprenditore individuale o il legale rappresentante della società fallita, viene ben presto a contatto con il curatore, il quale gli formula svariate domande. Le principali sono quelle destinate a conoscere la consistenza dell’attivo e la presenza di beni da poter utilmente liquidare, come pure quelle volte a ricostruire le cause del dissesto e quelle destinate ad eventuali chiarimenti di ordine contabile.

In questa fase, il fallito manifesta una comprensibile tendenza a intavolare un buon rapporto con il curatore e non sempre è in grado di rendersi conto della portata delle dichiarazioni che rende a verbale. Soprattutto se non accompagnato e adeguatamente assistito da un professionista con specifica formazione in materia.

Su alcune questioni il fallito non può mentire, in quanto esistono delle norme che gli impongono di dire la verità, stabilendo sanzioni penali per la trasgressione.

Parliamo innanzi tutto dell’art. 87 della legge fallimentare, il cui terzo comma dispone che, in sede di redazione dell’inventario il curatore invita il fallito a dichiarare se vi siano ulteriori attività fino a quel momento non appalesate, avvertendolo delle pene stabilite dall’articolo 220 della stessa legge, per il caso di falsa o omessa dichiarazione.

Su questo aspetto, il fallito non può dunque tenere un comportamento omissivo o reticente, poiché ne conseguirebbe un’incriminazione, a titolo doloso o anche colposo.

In realtà, nella prassi dei tribunali è molto raro incontrare un capo di imputazione di questo tipo, in quanto la mancata indicazione di beni viene sempre assorbita nel ben più grave reato di bancarotta per distrazione e anzi ne costituisce una delle più ricorrenti tecniche incriminatorie.

Ne consegue che è proprio con quest’ultima evenienza che il fallito deve fare i conti, allorchè si tratti di decidere quale debba essere il contenuto delle dichiarazioni da rendere al curatore.

L’imputazione di bancarotta per distrazione, sotto il profilo probatorio, si sviluppa attraverso quella peculiarità del diritto penale fallimentare che viene indicata come un’apparente inversione dell’onere della prova.

E’ la giurisprudenza a sottolineare che, in realtà, l’inversione dell’onere della prova è solo apparente e ciò consente che, in questi casi, vengano comminate condanne nel rispetto della presunzione costituzionale di non colpevolezza che, com’è noto, spetta all’accusa di ribaltare.

In sostanza, la mancata indicazione di un bene e la mancata dimostrazione del motivo per il quale lo stesso non è stato consegnato al curatore, sono comportamenti dai quali può essere desunta la prova della distrazione. E ciò anche in forza del fatto che l’art. 87, comma 3, del R.D. n. 267/1942 assegna al fallito un obbligo di verità circa la destinazione dei beni d’impresa. Ne consegue che, ai fini della prova della distrazione, assume rilievo la condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell’interpello. Non si tratta, dunque, di inversione dell’onere delle prova ma, invece, del rilievo indiziario di un contegno reticente.

Al di fuori del caso appena descritto, che si riferisce in modo specifico al dovere di dire la verità in ordine ai cespiti patrimoniali e alle conseguenze che la reticenza può comportare in ordine alla configurazione del reato di bancarotta per distrazione, esiste però un’area molto ampia di argomenti rispetto alla quale il fallito non ha un obbligo specifico di dire al curatore la verità.

Cosa accade ad esempio se un fallito dichiara falsamente, al curatore e alla polizia giudiziaria, che le scritture contabili sono andate distrutte a seguito di un allagamento ?

Nulla di penalmente rilevante.

Infatti, secondo recente giurisprudenza di legittimità, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) sussiste solo qualora l’atto pubblico che recepisce la dichiarazione del privato, sia ontologicamente preordinato a costituire prova della verità dei fatti narrati. Vale a dire che vi deve essere una norma giuridica che ricolleghi alla dichiarazione la specifica funzione di costituire prova della verità dei fatti che ne costituiscono l’oggetto. Ciò non accade per la dichiarazione resa dal fallito, la quale, per il solo fatto di essere recepita nel verbale del curatore, non diventa prova privilegiata della veridicità degli accadimenti.

In sostanza, ciò che il fallito dichiara, anche se a lui favorevole, non gli può giovare se non nel quadro e alla stregua di qualsiasi altro elemento raccolto nel corso della ricostruzione delle cause del dissesto.

Quello che il fallito dichiara al curatore, quando a lui sfavorevole, può per contro assumere un rilievo molto negativo e ciò sia per la mancanza di qualsiasi garanzia difensiva di tipo processual-penalistico, sia per il valore confessorio che la giurisprudenza gli attribuisce, sia, ancora, per il rilievo documentale che la stessa giurisprudenza attribuisce alla relazione del curatore.

Andiamo con ordine e cerchiamo di comprendere per quale ragione il fallito deve pesare bene ogni parola detta al curatore e deve munirsi di una valida assistenza legale di tipo preventivo.

Innanzi tutto è da dire che, nonostante i tentativi reiterati delle difese e due sentenze della Consulta, la Cassazione è monolitica nel dire che le garanzie difensive del codice di procedura penale non si applicano alle dichiarazioni rese dal fallito agli organi della procedura. In sostanza, non vale in questa fase il principio secondo il quale, quando un soggetto, ascoltato dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti, inizi a dire cose dalle quali emergono indizi di reaità a suo carico, occorre “interrompere il verbale” e invitarlo a munirsi di un difensore.

Le Procure, forti di questa monoliticità, stentano a iscrivere il fallito nel registro degli indagati e preferiscono, prima di farlo, che il curatore gli faccia fare una bella serie di dichiarazioni eventualmente autoincriminanti. Spesso i pubblici ministeri lo fanno addirittura impartendo al curatore specifiche direttive in ordine alle domande da porre. In sostanza utilizzano il curatore come loro “longa manus”, ben sapendo che nessun giudice sarà disposto a dire che il curatore è assimilabile alla polizia giudiziaria. E’ evidente che, in questa situazione, chi inizi a parlare col curatore senza aver prima consultato un avvocato esperto nel settore, o è un santo o è un kamikaze.

Tutto ciò, ove ve ne fosse ancora bisogno, è aggravato dal fatto che la relazione del curatore, la quale recepisce al suo interno la letterale trascrizione degli interrogatori del fallito, viene acquisita, senza indugio e nella sua integralità, al fascicolo del dibattimento penale, alla stregua di un qualsiasi altro documento. Inoltre il curatore nel corso del suo esame testimoniale viene ascoltato “de relato” su quanto a lui dichiarato dal fallito e da lui trasposto nella suddetta relazione, ex art. 33 legge fallimentare.

Fallito avvisato ….

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

 

 

 

 

 

 

 

Fare rete fra avvocato e commercialista per offrire ai rispettivi clienti un servizio migliore

   Studio Legale Leo si occupa di diritto penale dell’economia e, in particolare, di bancarotta, reati tributari, reati societari, con riferimento ai profili di responsabilità di imprenditori, amministratori, sindaci e revisori.

   Si occupa altresì della tutela del patrimonio individuale e aziendale, con riferimento alle varie ipotesi di sequestro penale e di successiva confisca.

   Il diritto penale dell’economia si colloca al confine fra la  professionalità dell’avvocato e quella del commercialista, perché prende in esame condotte che trovano la loro origine e la loro giustificazione nelle scienze economiche, contabili e aziendalistiche.

   Ne deriva la necessità di un costante scambio di valutazioni fra le due figure professionali, quale modulo imprescindibile attraverso il quale gestire correttamente i rischi penali, nella fase dell’eventuale difesa processuale ma, ancora prima, in quella del compimento delle scelte gestionali.

   Se sei un commercialista o un consulente e sei interessato a uno scambio informale di valutazioni su un caso concreto, puoi rivolgerti a noi.

  Ti risponderemo sulla base della nostra esperienza, contando di poter beneficiare, nello stesso tempo, del tuo punto di vista. Il guadagno reciproco sarà quello di potenziare la rete delle nostre relazioni professionali e di incrementare la nostra competenza interdisciplinare.

    Se condividi l’idea, compila il form per parlare del tuo caso o anche solo per darci una tua valutazione.

     Con il tuo consenso, ove di interesse diffuso, pubblicheremo nel nostro blog la tematica affrontata, citando ovviamente l’apporto fornito dal tuo studio. Lo stesso potrai fare tu, a beneficio dei rispettivi clienti, attuali o potenziali.

   Cordialmente

Studio Legale Leo

Bancarotta distrattiva per incongruità del canone di locazione – Cass. Pen. Sez. V 18998 del 6 maggio 2016, relatore Lapalorcia

Un canone di locazione esorbitante rispetto a previgenti condizioni contrattuali come pure ai valori di mercato, pattuito, in qualità di conduttore, da soggetto che di lì a poco viene sottoposto a procedura concorsuale, integra un comportamento depauperatorio e dunque distrattivo.

La prova di ciò, quantomeno nei limiti del sequestro preventivo dei proventi indebitamente percepiti dal terzo locatore, risiede nel fatto che il contratto di locazione incriminato costituiva modifica di un preesistente rapporto in vigore a canone più basso, rapporto modificato, con previsione di un corrispettivo maggiore, poco tempo prima della sottoposizione del conduttore a concordato preventivo.

Alcun rilievo la Corte ha attribuito alla circostanza che il nuovo canone fosse stato “validato” dagli organi della procedura, che nulla avevano eccepito in proposito, proseguendo nella conduzione dell’immobile.

Nel confermare il sequestro, il giudice di legittimità, seguendo una linea consolidata, pur facendo riferimento alla incongruità economica dello scambio, esprime implicitamente una valutazione di mala fede nei confronti del terzo contraente. Svolge altresì un’opera di supplenza rispetto all’inerzia degli organi della procedura concorsuale.

A scheme run for an insurance fraud

1) As part of a money laundering action…

… purchasing of some savings and loans of poor value, because burdened with non-performing mortgages

2) purchasing of a small domestic insurance company, to be paid for with loans from the savings and loans

3) swapping the non-performing mortgages from the savings and loans for good bonds held by the insurance company

 

the savings and loans are now collateralized with profitable paper, making them very attractive, while the insurance company is sitting on a portfolio of non-performing mortgages

4) forming an offshore re-insurance company

5) writing off to the re-insurer the premiums owned by the insurance company, sending them straight back to the offshore trust.

6) solding for a handsome profit the savings and loans while the insurance company is doomed to go bankruptcy .

L’imprenditore che ritarda nel chiedere il proprio fallimento risponde di bancarotta solo se versa in colpa grave

   Accade spesso, soprattutto in tempi di grave crisi economica, di incontrare imprenditori che si dibattono fra l’idea di chiedere il fallimento in proprio e quella di tentare ancora un’ ultima carta, sperando in un accordo di ristrutturazione dei debiti o in altra operazione di salvataggio .

   In simili evenienze, ciascun consulente è solito avvisare il proprio cliente del rischio bancarotta semplice.

   L’articolo 217 della legge fallimentare, infatti, punisce l’imprenditore dichiarato fallito che, pur non avendo commesso fatti fraudolenti, (…) “ ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa …

   La Corte di cassazione, sez. V penale (sentenza 25 settembre, 24 ottobre 2013, presidente Palla, relatore Zazza), interviene opportunamente a delimitare l’area del reato. Per farlo, si sofferma sull’ elemento psicologico, affermando che l’atteggiamento psichico dell’imprenditore può determinarne la condanna solo ove sia improntato alla colpa grave, mentre non è sufficiente una negligenza di minor spessore.

   Occorre dire, prima ancora di approfondire le caratteristiche della colpa, che per l’accertamento del reato è necessario stabilire il momento in cui si è obiettivamente verificato lo stato di insolvenza. Solo a partire da quella data, infatti, per l’imprenditore scatta il dovere di chiedere il fallimento, onde non aggravare il proprio dissesto.

   Si tratta di un accertamento non sempre agevole. La norma lo definisce come “l’incapacità di soddisfare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni” (art. 5 legge fall.) ma, nella pratica, si tende a postulare la presenza di zone grigie, almeno fino a quando si sia radicata la concomitanza di più indici rivelatori quali, ad esempio, revoche di tutti i principali affidamenti bancari, mancato pagamento di somme dovute a titolo di sostituto di imposta, più decreti ingiuntivi esecutivi e più procedure esecutive.

   E, in effetti, è proprio la presenza di zone grigie che va a influenzare lo stato soggettivo di quell’imprenditore che, in buona fede o con colpa lieve, ritiene di poter ancora riuscire a recuperare quello che egli avverte come uno squilibrio finanziario non ancora irreversibile.

   La sentenza in commento afferma che la colpa inescusabile non può essere ritenuta automaticamente sussistente ogniqualvolta l’imprenditore abbia ritardato nel richiedere il fallimento. Per contro, l’intensità dell’elemento volitivo deve essere delibata caso per caso, tenendo conto della ragionevolezza delle scelte che hanno determinato l’attesa e, più ancora, delle ragionevoli prospettive che da tali scelte sembravano scaturire. Ad esempio, qual è la misura oltre la quale è grave confidare “… in un esito positivo della difficile trattativa con gli istituti di credito per il ripianamento del debito bancario …” ?

   Proprio sul mancato approfondimento di questo passaggio va ad infrangersi la tenuta della sentenza impugnata. La Corte di legittimità ne ritiene carente la motivazione in quanto il giudice di merito ha omesso di qualificare il grado della colpa, proprio in riferimento ai tentativi di accordo con le banche, che erano venuti meno solo a seguito del dissenso espresso da un istituto e “per effetto della condizione, alla quale l’accordo era subordinato, dell’adesione di tutti gli istituti interessati”.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.