Se il Fisco non prova l’accordo fraudolento, non può rivalersi sull’acquirente ma attenzione alla forza delle presunzioni

La classica frode Iva (in alcuni casi, frode carosello), nonostante alcune varianti di volta in volta riscontrabili, riproduce essenzialmente uno schema consueto.

Esemplificando, fra l’azienda che produce un bene e che lo vende (o lo esporta in Italia) e l’azienda che lo acquista, si inserisce un terzo soggetto che, sfruttando alcuni meccanismi previsti dalla norma tributaria, si interpone fittiziamente, con il preciso proposito di non riversare all’erario l’Iva versatagli dall’acquirente.

Si parla in proposito di operazioni soggettivamente inesistenti, proprio per la ragione che l’operazione di per sé esiste ma, nella sostanza economica, il vero venditore è colui che ha prodotto il bene e non quello che figura sulla fattura ricevuta dall’acquirente, soggetto, appunto, fittiziamente interposto.

Poiché, com’è ovvio, il soggetto interposto non ha nulla da perdere, l’Erario cerca sempre di rivalersi a carico dell’acquirente, recuperando a tassazione l’imposta detratta, e per fare ciò deve necessariamente postulare un accordo fraudolento fra quest’ultimo e l’interposto. Accordo che, quando esiste, prevede una divisione fra i due del beneficio dell’Iva non versata, in modo che l’acquirente detragga l’Iva pagata e benefici di un ritorno corrispondente alla quota parte di quella non versata dal venditore interposto.

L’accordo fraudolento, però, deve essere non solo dedotto ma anche provato.

A tal fine, solitamente, l’Ufficio si dilunga non poco nell’allegazione di svariati elementi atti a dimostrare la natura fittizia e fraudolenta del soggetto interposto, che com’è ampiamente noto, viene definito “cartiera”, in quanto, lungi dall’essere un vero imprenditore, svolge come unica attività quella di stampare false fatture.

Quello che spesso manca nelle architetture a sostegno dell’avviso di accertamento è, invece, la prova della consapevole partecipazione alla frode da parte del contribuente.

Ma attenzione, si tratta di una prova che, per consolidata giurisprudenza, può essere fornita anche per presunzioni, vale a dire attraverso l’allegazione di concludenti indizi dai quali si possa desumere la conoscenza o almeno la conoscibilità in capo all’acquirente dello schema fraudolento.

E l’enfasi va necessariamente posta su ciò che costituisce la frontiera più arretrata della difesa del contribuente: la conoscibilità, detta anche negligenza negoziale.

In sostanza, di fronte alla prova, fornita dall’Ufficio, di una serie di elementi dai quali si possa desumere che un imprenditore di media avvedutezza avrebbe compreso la reale natura e le reali intenzioni del venditore a cui egli stava per pagare il corrispettivo, comprensivo dell’Iva, sarà onere dell’acquirente fornire la prova contraria e cioè la prova della propria buona fede.

A tal fine non saranno sufficienti le pur regolari scritturazioni contabili, contenenti l’annotazione dei pagamenti. Meglio sarà allegare fatti più concreti, come ad esempio, la prova concreta dell’intervenuto pagamento delle forniture, con conseguente addebito bancario, a seconda del mezzo prescelto, il quale, inutile dirlo, dovrà essere tracciabile.

Autore Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Ho prenotato un immobile e ho già pagato buona parte del prezzo ma la cooperativa sta per fallire

  Chi si trova in una situazione di questo tipo deve agire con tempestività e decisione.

  Se ha prenotato una “prima casa” – vale a dire un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale per sè o suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo, destinato a costituire la sede principale della propria attività di impresa – e ha trascritto il preliminare, non dovrebbe correre grossi rischi.

  In ogni caso, sia per la prima che a maggior ragione per la c.d. “seconda casa”, la manovra che lo pone ancor di più al riparo da qualsiasi sorpresa, è la trascrizione di una domanda giudiziale ex art. 2932 cc., prima che venga iscritta la sentenza di fallimento.

  Infatti, in mancanza di detta prioritaria trascrizione, il curatore (o commissario giudiziale nel caso di liquidazione coatta amministrativa) può sciogliersi dal vincolo preliminare, vendere l’immobile e distribuire ai creditori il ricavato.

  In questo caso, purtroppo, l’assegnatario poco solerte non solo perderà la casa ma si vedrà sorpassato dal credito vantato dalla banca, il quale sarà sempre garantito da ipoteca fondiaria e, come tale, prioritario nella distribuzione.

Autore Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Responsabilità medica: sull’ambito di operatività della scriminante della colpa lieve – Giurisprudenza penale

Cassazione Penale, Sez. IV, 6 giugno 2016 (ud. 11 maggio 2016), n. 23283 Presidente Blaiotta, Relatore Montagni, P.G. Cedrangolo Segnaliamo, in tema di responsabilità medica, la pronuncia numero 23283 del 6 giugno 2016 con cui la quarta sezione penale della Cassazione ha fatto il punto sulla rilevanza delle linee guida a seguito della riforma di cui …

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Riciclaggio e autoriciclaggio

  1. Definizioni

Viene incriminato per riciclaggio il soggetto che si occupa di nascondere la provenienza illecita del denaro o degli altri beni ricavati da un reato, alla cui commissione non ha partecipato, creando, attraverso una trasformazione e  un reimpiego di tali beni, l’apparenza che la loro origine sia lecita.

Viene incriminato per autoriciclaggio il soggetto che, dopo aver commesso un reato, si occupa di nascondere la provenienza illecita del denaro o degli altri beni ricavati da tale illecito, creando, attraverso una trasformazione e  un reimpiego di tali beni, l’apparenza che la loro origine sia lecita.

  1. Le caratteristiche dell’autoriciclaggio

L’autoriciclaggio è punito solo se la trasformazione e  il reimpiego dei beni ricavati dal reato, vengono attuati mediante inserimento degli stessi in attività di tipo economico, finanziario, imprenditoriale o speculativo. Non si è puniti, dunque, se si utilizzano i detti proventi per attività di mera fruizione o godimento personale.

In sostanza, non è punito chi si limita ad utilizzare, spendere, consumare o trasformare in beni di uso personale ciò che ha ricavato dalla commissione del reato, ma solo chi, in modo da nasconderne la provenienza, immette tale ricavo illecito in un ciclo economico/produttivo.

La differenza che si profila è, dunque, fra consumo personale e reinvestimento produttivo.

  1. L’accertamento del riciclaggio

L’attività di riciclaggio, per essere punibile, deve consistere in un’azione che sia concretamente idonea a rendere opaca la provenienza illecita del denaro o degli altri beni.

Altrimenti l’attività dovrà essere considerata innocua, perché evidentemente commessa in buona fede.

E’ proprio intorno alla verifica di questo requisito che ruotano le principali argomentazioni difensive di chi sia indagato per tale reato. La disamina della casistica ragionevolmente ipotizzabile assume in proposito una grande importanza.

In tema di verifica della buona fede, che, in qualche modo, costituisce il risvolto soggettivo della carenza di idoneità dell’azione, è bene considerare che si è puniti per riciclaggio anche a titolo di dolo eventuale, vale a dire quando, pur non essendovi prova di un’aperta intenzione di commettere il fatto, risulta che il soggetto non abbia desistito dall’attività, pur in presenza di chiari segnali in base ai quali una persona normale avrebbe seriamente sospettato  della provenienza illecita dei beni.

  1. Autoriciclaggio e reati fiscali

Uno dei principali banchi di prova dell’autoriciclaggio sarà certamente costituito dal reimpiego del ricavato di reati fiscali, in quanto non è infrequente che quanto sottratto al fisco sia poi reimpiegato nella stessa azienda.

E’ da ritenere pertanto che si tratti di uno strumento volto a perseguire con maggiore efficacia l’evasione penalmente rilevante, attraverso una ricostruzione dell’origine delle somme impiegate nel processo produttivo.

autore Enrico Leo – tutti i diritti riservati

Bancarotta distrattiva per incongruità del canone di locazione – Cass. Pen. Sez. V 18998 del 6 maggio 2016, relatore Lapalorcia

Un canone di locazione esorbitante rispetto a previgenti condizioni contrattuali come pure ai valori di mercato, pattuito, in qualità di conduttore, da soggetto che di lì a poco viene sottoposto a procedura concorsuale, integra un comportamento depauperatorio e dunque distrattivo.

La prova di ciò, quantomeno nei limiti del sequestro preventivo dei proventi indebitamente percepiti dal terzo locatore, risiede nel fatto che il contratto di locazione incriminato costituiva modifica di un preesistente rapporto in vigore a canone più basso, rapporto modificato, con previsione di un corrispettivo maggiore, poco tempo prima della sottoposizione del conduttore a concordato preventivo.

Alcun rilievo la Corte ha attribuito alla circostanza che il nuovo canone fosse stato “validato” dagli organi della procedura, che nulla avevano eccepito in proposito, proseguendo nella conduzione dell’immobile.

Nel confermare il sequestro, il giudice di legittimità, seguendo una linea consolidata, pur facendo riferimento alla incongruità economica dello scambio, esprime implicitamente una valutazione di mala fede nei confronti del terzo contraente. Svolge altresì un’opera di supplenza rispetto all’inerzia degli organi della procedura concorsuale.

Cassazione penale, sezione quinta, deposito 11 maggio 2016

L’amministratore di società fallita non evita la condanna per bancarotta se deduce la mancanza di dolo, affermando che egli ha rivestito un ruolo solo formale, essendosi limitato ad eseguire la volontà di un altro soggetto, quando poi i verbali delle audizioni del curatore dimostrano come detto amministratore avesse una profonda e diretta conoscenza dei fatti societari.

Dichiarazione fraudolenta e infedele: i rapporti fra il processo tributario e il processo penale

La terza sezione penale della cassazione ha depositato ieri, 12 ottobre, la sentenza 40755/2015 con la quale ha annullato una pronuncia di condanna emessa dalla Corte d’appello di Roma, in materia di reati fiscali.

All’imputato, quale legale rappresentante di una società, era stato contestato il reato di dichiarazione infedele, per avere omesso di valorizzare integralmente in dichiarazione i ricavi della vendita di alcuni appartamenti. In particolare, sia l’Ufficio che la Procura avevano ritenuto irrilevanti i costi di produzione, perché sostenuti oltre dieci anni prima della cessione.

Era però accaduto che, prima della definizione completa del processo penale, fosse passata in giudicato la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale che aveva riconosciuto fondata la deduzione dei detti costi.

La Corte di Cassazione, sconfessando l’operato della Corte di merito, ha statuito che, in una simile fattispecie, il giudice penale, qualora ritenga di doversi scostare dalla sentenza definitiva emessa in sede tributaria, deve spiegare in modo stringente questo suo opinamento.

Deve, in particolare, spiegare per quali ragioni, l’accertamento definitivo raggiunto in sede fiscale non possa spiegare i suoi effetti anche nel giudizio penale.

In definitiva, resta fermo il consolidato orientamento della giurisprudenza penalistica, secondo il quale il giudicato tributario non vincola il giudice penale e quest’ultimo può pervenire – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso.

Basti pensare, in proposito, alla diversità strutturale del rito tributario e del rito penale e, in particolare, alla notevole diversità dei possibili approfondimenti istruttori, nonché ai poteri del giudice penale di disporre qualsiasi mezzo di prova, in vista del perseguimento del fine ultimo della ricerca della verità.

Ciononostante, per discostarsi dall’accertamento concordato con il contribuente o dall’accertamento divenuto definitivo all’esito del contenzioso, il giudice penale deve motivare in modo puntuale le ragioni della divergenza di approdi, pena la nullità della sentenza.

Autore dell’articolo Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

La richiesta di archiviazione fra legittima scelta sulla fondatezza della notizia di reato e sistema di smaltimento dei rifiuti solidi giudiziari

Il Pubblico Ministero, se ritiene infondata la notizia di reato, chiede al Gip che il fascicolo venga archiviato.

Al denunciante che ne abbia fatto richiesta, viene dato avviso di questa intenzione di non perseguire il denunciato e gli viene data la possibilità, entro il termine di dieci giorni, di verificare quali indagini siano state fatte ed eventualmente di rappresentare al Gip una sua motivata contrarietà all’archiviazione, con la richiesta di ulteriori approfondimenti investigativi.

Andando a verificare le motivazioni della richiesta di archiviazione e confrontandole con i risultati delle indagini svolte, non di rado accade di apprendere che il sostituto procuratore incaricato della cura del fascicolo non ha svolto alcuna attività. In questi casi, egli ha custodito il fascicolo su uno scaffale per alcuni anni (in media un paio) e poi, giunto il suo turno, gli ha impressa la destinazione finale, attraverso una motivazione spesso succinta e stereotipata.

Quando ciò accade, si verifica un’ evidente trasgressione del principio di obbligatorietà dell’azione penale e l’articolo 408 cpp da legittimo mezzo per eliminare dal sistema le denunce totalmente infondate o prive di qualsiasi possibilità di fruttuoso sviluppo investigativo, diviene un sistema di smaltimento dell’arretrato. Un metodo assai discutibile, che viene poi utilizzato nelle statistiche giudiziarie per sostenere che i procedimenti penali sono diminuiti.

Di questa problematica, applicata all’ipotesi più specifica di due denunce fra loro connesse e probatoriamente collegate, si è occupata la Cass. pen. Sez. VI, (ud. 13-03-2014) 04-07-2014, n. 29347, presidente Agrò, relatore Leo.

Veniva impugnato per cassazione un decreto di archiviazione emesso de plano dal Gip di Lecce per inammissibilità dell’opposizione, in relazione ad un ipotizzato delitto di calunnia.

Il Pubblico Ministero aveva “sollecitato l’archiviazione – senza compiere indagini dedicate – censurando il ricorso a denunce collaterali al procedimento principale e prospettando un abuso del diritto “non tollerabile dall’ordinamento”.

   Il denunciante aveva presentato opposizione, chiedendo lo svolgimento di indagini integrative, consistenti nell’ acquisizione dei verbali del dibattimento in corso innescato dalla denuncia asseritamente calunniosa e nell’ escussione di ulteriori persone informate dei fatti di cui al procedimento principale.

   Il Gip, fra l’altro, nel decreto de plano affermava che l’accusa di calunnia non sarebbe stata ragionevolmente sostenibile prima che fosse stato definito il giudizio per il fatto principale.

   La Corte ha accolto il ricorso del denunciante e disposto la trasmissione degli atti al Gip per l’ulteriore corso.

   Queste le principali affermazioni motivazionali:

“La valutazione esplicitamente sottesa alla presa di posizione del Procuratore generale, circa l’inopportunità della duplicazione che si determina con l’instaurazione di procedimenti fondati sull’ipotizzata falsità delle accuse altrove sottoposte a verifica, è certamente comprensibile.

Essa del resto si innesta nel percorso di recenti decisioni di questa Corte, che tendono ad ostacolare il fenomeno della duplicazione di procedimenti aventi il medesimo oggetto sostanziale, spesso per finalità non tutelabili dall’ordinamento (come ad esempio quella di trasformare una persona offesa, testimone, in una persona indagata o imputata per reato connesso). La tendenza si è manifestata anche sullo specifico terreno dell’opposizione alla richiesta di archiviazione nel procedimento che, per una qualche ragione, si consideri duplicato, fino ad affermare l’inammissibilità della opposizione medesima, pur in presenza di puntuali indicazioni istruttorie sul merito della regiudicanda, quando si tratti di accertamenti la cui sede naturale viene individuata in un procedimento parallelo, per qualche ragione (in genere la cronologia) considerato “principale” (Sezione 6^, sentenza n. 45206 del 16/07/2013).

In effetti la ratio decidendi della giurisprudenza citata si fonda in buona parte proprio sulla particolare complementarietà delle notizie di reato che concorrono nei casi in questione, tale che il pubblico ministero ben può omettere, quando la denuncia per calunnia risulta strumentale e manifestamente infondata, l’iscrizione della relativa notizia di reato a carico del denunciato, e far confluire l’atto direttamente nel contesto del procedimento “principale”.

L’archiviazione senza approfondimenti istruttori, e la connessa valutazione di inammissibilità dell’opposizione che solleciti tali approfondimenti, rappresentano una sorta di “rimedio” per i casi in cui la notitia criminis del delitto di calunnia non avrebbe dovuto neanche essere iscritta, data la sua manifesta infondatezza e, comunque, la mancanza sostanziale di autonomia rispetto al tema dell’affidabilità della prova d’accusa nel procedimento parallelo sui fatti.”

Fatta questa ricognizione, la sentenza aggiunge nello specifico che

“Nella sua portata generalizzante, la soluzione è inaccoglibile.

Essa rischia di introdurre una logica di pregiudizialità che, in termini generali, è sconosciuta all’ordinamento processuale.

La giurisprudenza, in effetti, ha valorizzato il ne bis in idem ben oltre la portata dell’art. 649 c.p.p., configurando “nuove” fattispecie di improcedibilità dell’azione, ma sempre con riguardo a procedimenti che abbiano lo stesso oggetto, e non semplicemente un rapporto di connessione. Al meritevole scopo perseguito con le tesi in esame possono giovare – sempre sul piano generale – le norme in materia di riunione, o finanche comportamenti di fatto, tenuti dalle parti o dagli stessi magistrati procedenti, alla luce di una gestione ragionevole ed “economica” dei procedimenti (a cominciare, per fare un esempio, dal travaso di risultanze tra procedimenti). Certamente, e però, non può ammettersi quella vera e propria fattispecie di improcedibilità (ancor più: impromovibilità) dell’azione che costituisce il portato della tesi espressa, in termini generali, dalla Procura requirente.”

   In sostanza, la Cassazione ha ritenuto che il rimedio, in una fattispecie di indagini tuttora in corso per entrambi i procedimenti, non sia altro che quello delle indagini coordinate o dello scambio di informazioni fra fascicoli.

E ancora:

“Più radicalmente, e per chiudere, va colta l’inadeguatezza di una soluzione che preclude alla persona offesa finanche una interlocuzione sulla qualità di relazione tra il procedimento che la riguarda e quello che dovrebbe assumere il ruolo di giudizio “principale”. Se anche si ammettesse l’esistenza di una nozione di completezza “dedicata” ai casi di “processo duplicato”, la verifica del caso concreto non potrebbe che svolgersi nel contraddittorio tra le parti, come avviene in tutti i casi in cui non siano affatto “già accertate” o “palesemente ininfluenti” le prove integrative specificamente indicate dalla persona offesa.”

In conclusione, non si può escludere la procedibilità e la fruttuosità di un procedimento penale per calunnia, solo sulla base dell’assunto generalizzante secondo il quale, onde evitare una duplicazione di accertamenti, vi sarebbe una sorta di pregiudizialità del primo giudizio (quello cioè innescato dalla denuncia in ipotesi calunniosa). Per contro, la denuncia di calunnia, se corredata da elementi che ne connotino un certo livello di concretezza, mantiene la sua autonomia e, nei casi in cui entrambi i fascicoli (quello cosiddetto principale e quello relativo alla denuncia per calunnia) siano in fase di indagini preliminari, il Pubblico Ministero, anziché chiedere di archiviare apoditticamente quello per calunnia, deve attivare gli strumenti previsti dall’articolo 371 cpp.

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Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: sequestro preventivo sui beni che il terzo ha ricevuto in donazione dal debitore

   La Cassazione (sez. 3^, rel. Orilia) con sentenza depositata il 9 settembre 2015, torna sul sequestro preventivo dei beni donati, da parte di chi sia indagato per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

   Il ricorso, proposto dal donatario, figlio dell’indagato e titolare del bene sequestrato, si basava sulle seguenti deduzioni:

  • L’atto di donazione non è idoneo a pregiudicare gli interessi del fisco, in quanto facilmente revocabile e ciò dimostrava altresì la mancanza di intento fraudolento;
  • Anche dopo l’atto di donazione il patrimonio del donante rimaneva capiente rispetto alla pretesa del fisco

Questa la risposta della Cassazione:

  • La riforma del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte intervenuta nel 2010, ha trasformato tale illecito in reato di pericolo, per la cui integrazione è dunque sufficiente l’ astratta idoneità a rendere inefficace, in tutto o in parte, la procedura di riscossione coattiva
  • Lo scopo dell’incriminazione è quello di salvaguardare l’intangibilità della garanzia patrimoniale, evitando di rendere anche solo più difficile la riscossione.

   Pur sulla base di questi principi, già oggetto di numerosi precedenti conformi, rimane la necessità di valutare, nei molti casi concreti che si presentano in questa materia, l’effettiva idoneità dell’atto di spossessamento, cosa che la Cassazione difficilmente riesce a fare in quanto, fatto salvo il vizio di motivazione meramente apparente, la terza istanza cautelare può solo occuparsi di violazione di legge.

    Invero, il giudizio sulla fraudolenza dell’atto e sulla conseguente sussistenza del dolo specifico, richiesti dalla norma incriminatrice, è per lo più questione di valutazione degli elementi indiziari, salvo poter essere attaccato, in un limitato numero di casi, anche sotto il profilo dell’errata applicazione della legge.

   Per esempio, il fine di sottrarsi al pagamento delle imposte (dolo specifico) sembrerebbe non potersi ritenere sussistente in caso di donazione, atto che, di per sé non integra l’estremo di un negozio simulato o fraudolento e non pare affatto idoneo a vanificare la procedura di riscossione.

   Ciò è tanto più vero ove si consideri la recente introduzione dell’art. 2929 bis c.c., in forza del quale, in caso di donazione successiva al sorgere del credito, la procedura esecutiva può essere promossa senza alcun ostacolo.

   Più complessa e più attinente ad un’accorta ponderazione degli elementi di prova appare, invece, la valutazione dell’idoneità di un atto dispositivo a rendere anche solo più difficile l’esazione coattiva: qui tutto dipende dalle proporzioni fra beni ceduti e patrimonio residuo.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

Frodi Iva: il reato potrebbe non prescriversi più ma la Corte di Giustizia pone due condizioni

   Continua l’opera di demolizione, per via non legislativa, della prescrizione e dei suoi effetti.

   Dopo le Sezioni Unite penali del 21 luglio 2015, che hanno sancito che la confisca delle somme giacenti sui rapporti bancari intestati all’imputato rimane valida anche in caso di prescrizione, ecco la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sollecitata da un giudice italiano chiamato ad occuparsi di una frode Iva destinata a prescriversi per il lungo tempo ormai trascorso dai fatti.

   Saranno in molti a domandarsi se una simile giurisprudenza comunitaria non sia in contraddizione con l’atteggiamento da sempre tenuto dall’Europa nei confronti dell’Italia e, ancora, se essa sarà portatrice di conseguenze potenzialmente dirompenti sul nostro modello di prescrizione penale.

   Quanto al primo aspetto, invero, le note condanne collezionate dal nostro Stato convergono nel dire “dovete rendere i processi più celeri”, fine non certo raggiungibile attraverso un indefinito allungamento della prescrizione.

   Il principale argomento che sorregge l’odierna pronuncia è quello dell’ interesse finanziario: quando è in pericolo un’imposta direttamente destinata a foraggiare le casse dell’Unione, gli altri valori devono cedere il passo.

   Le sanzioni a protezione di un simile primario interesse devono essere dunque effettive e dissuasive, cosa che non accade ove i malfattori nostrani possano fondatamente contare sull’effetto estintivo della lungaggine procedimentale.

… the Member States are to take the necessary measures to ensure that conduct constituting fraud affecting the European Union’s financial interests is punishable by effective, proportionate and dissuasive criminal penalties, including, at least in cases of serious fraud, penalties involving deprivation of liberty”.

   Secondo la Corte, alla modifica “in corsa” dei termini di prescrizione non osta neppure l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali poichè “the extension of the limitation period and its immediate application do not entail an infringement of the rights guaranteed by Article 7 of that convention, since that provision cannot be interpreted as prohibiting an extension of limitation periods where the relevant offences have never become subject to limitation

La Corte di Giustizia conclude con l’affermare che

“a national rule in relation to limitation periods for criminal offences such as that laid down by the national provisions at issue — which provided … that the interruption of criminal proceedings concerning serious fraud in relation to VAT had the effect of extending the limitation period by only a quarter of its initial duration — is liable to have an adverse effect on the fulfilment of the Member States’ obligations … if that national rule prevents the imposition of effective and dissuasive penalties in a significant number of cases of serious fraud affecting the financial interests of the European Union, or provides for longer limitation periods in respect of cases of fraud affecting the financial interests of the Member State concerned than in respect of those affecting the financial interests of the European Union, which it is for the national court to verify”.

   Sono due, perciò, le condizioni che, cumulativamente, il giudice nazionale del rinvio dovrà verificare per poter disapplicare la normativa incriminata:

  1.  … if that national rule prevents the imposition of effective and dissuasive penalties in a significant number of cases of serious fraud
  2.  … if it provides for longer limitation periods in respect of cases of fraud affecting the financial interests of the Member State concerned than in respect of those affecting the financial interests of the European Union

   Il risultato della verifica di entrambi non è affatto scontata.

   Quanto al primo, occorrerà vedere come il giudice nazionale potrà attestare che la normativa sulla prescrizione sia suscettibile di vanificare la dissuasività della comminatoria penale in un significativo numero di casi. Farà ricorso alle statistiche giudiziarie ?

   Quanto al secondo, ci si domanda se egli riuscirà a dimostrare che il diritto nazionale prevede ipotesi di reato che pregiudicano interessi finanziari dello stato, le quali hanno un termine di prescrizione più lungo di quello prescritto per la frode Iva in questione, che pregiudica l’interesse finanziario dell’Unione.

   Perchè ricorra questa seconda condizione, dovrebbe comunque trattarsi di reati equiparabili sotto il profilo della gravità.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​