La sentenza d’appello per la morte di Marco Vannini: il dolo eventuale e le insidie del processo mediatico


Reinhard Frank


La lettura delle motivazioni della sentenza d’appello per la morte di Marco Vannini (giudice estensore De Cataldo), suscita alcune riflessioni che, pur incentrate sulla corretta ricostruzione del titolo, doloso o colposo, dell’omicidio, vanno necessariamente a toccare le influenze negative che il cosiddetto processo mediatico esercita sul corretto esercizio della giurisdizione penale. 

  1. Il processo mediatico e il giudizio sul tipo di autore

Per comprendere il significato e le implicazioni del cosiddetto processo mediatico occorre innanzi tutto distinguerlo dalla cronaca giudiziaria.

Questa costituisce imprescindibile applicazione del diritto dovere di informare attraverso la libera manifestazione del pensiero (art. 21 della costituzione). 

Fornisce notizia dei reati commessi, racconta le indagini e i processi che li perseguono, commenta e critica, nei limiti della continenza, le sentenze.

Il processo mediatico, dove l’aggettivo si riferisce al mezzo televisivo e alle sue propaggini social, costituisce per contro una sorta di deriva populistica della cronaca giudiziaria, ispirata non solo dalla dittatura dell’auditel ma anche dal desiderio di corrispondere alle richieste diffuse di una giustizia più rapida e più severa.

Così, per reazione alla giustizia statuale – che offre lo spettacolo indecoroso di processi lumaca e pene che, soprattutto ove lette sul piano cartonato di un infinito gioco dell’oca, appaiono irrisorie – prosperano quelle redazioni televisive, le quali, al di là del racconto fisiologico della cronaca giudiziaria, coltivano un filone patologico.

Tali redazioni, anziché raccontare gli atti processuali dei magistrati (la cronaca, appunto), li pongono in essere esse stesse (il testimone, interrogato nello studio televisivo prima ancora che lo stesso venga sentito nelle sedi proprie; l’indagato “frugato” in primo piano dalla telecamera, alla ricerca della più piccola contrazione del volto).

Simili “atti istruttori” diventano parte integrante di un racconto che si sviluppa in presa diretta e che si alimenta delle onde emotive che lo stesso suscita negli spettatori.

Il processo mediatico, attraverso questi espedienti, mette in scena il surrogato della giurisdizione penale, nella triplice forma dell’accertamento mediatico dei fatti, del conseguente giudizio mediatico sulle responsabilità e della successiva pena della gogna mediatica, comminata quasi sempre ancor prima della “sentenza”, fin dai primi appostamenti sotto casa di chi, a rigore, sarebbe ancora un semplice indagato.

Richiamata questa breve descrizione della patologia degenerativa che ha colpito parte della cronaca giudiziaria, risulterà più chiaro per quale motivo alcuni Giudici possano rimanere inconsapevolmente contaminati e condizionati dalle richieste della piazza e finiscano per sanzionare non tanto il fatto di reato ma piuttosto quello che viene chiamato il giudizio sul tipo di autore.         

La sentenza d’appello del caso in commento fa espresso riferimento alla necessità di fugare questo pericolo, richiamando sul punto due pronunce fondamentali della cassazione (SS.UU. 38343/2014 e sezione prima 14776/2018).

Con la locuzione tipo d’autore si intende quell’atteggiamento, incompatibile con i principi del nostro ordinamento (e, ancor prima, con qualsiasi principio di civiltà giuridica), che mira a punire una persona non già per il singolo fatto compiuto, storicamente e obiettivamente accertato attraverso la ricostruzione delle sue specifiche caratteristiche ma, invece, per i connotati etici che si ritiene appartengano al soggetto medesimo.

Scendendo nel concreto della sentenza Vannini, il Giudice di primo grado potrebbe aver condannato a titolo di omicidio doloso anziché colposo (risultato poi ribaltato dall’appello), proprio nella prevalente considerazione, ossessivamente ripetuta dalle citate trasmissioni, della spregevolezza della personalità del Ciontoli.

Insomma, potrebbe aver qualificato l’omicidio come volontario, a causa di un giudizio etico, secondo il quale un autore così egoisticamente orientato rispetto alla considerazione della vita altrui, non poteva che aver accettato pienamente l’idea del tragico epilogo. Per le stesse ragioni potrebbe essere stato influenzato dalla logica, anch’essa richiesta a gran voce dalla prevalente opinione pubblica, della pena esemplare, esigenza la cui soddisfazione richiedeva necessariamente l’omicidio doloso, essendo troppo blanda la pena prevista per quello colposo.

     2. Il dolo eventuale

Non è certo per caso che le principali vicende giudiziarie nelle quali, recentemente, si sono confrontate le ipotesi del dolo eventuale e della colpa cosciente (e nelle quali ha vinto quasi sempre la tesi della colpa), si riferiscano a delitti di omicidio per i quali la coscienza diffusa aveva ritenuto troppo blande le pene dell’omicidio colposo.

Si è trattato di omicidi verificatisi nel campo della circolazione stradale, della mancata prevenzione sui luoghi di lavoro, di trattamenti medico chirurgici eseguiti con gravissima divergenza dalle corrette pratiche terapeutiche o, addirittura, per ragioni che poco avevano a che fare con la cura dei malati.

Tutti casi in cui la cifra etica emergente dal comportamento degli imputati, seppure per fatti classicamente inquadrabili nell’omicidio colposo, faceva apparire del tutto inadeguata l’applicazione del ristretto confine sanzionatorio previsto per questa tipologia di reato.         

In proposito, vien fatto di evidenziare subito due cose: la prima è che è meglio innalzare normativamente le pene per l’omicidio colposo anziché “forzare” per via giudiziaria il confine fra dolo e colpa; la seconda porta a considerare come l’omicidio, a differenza di altri tipi di reato, sia terreno assai poco fertile per esercitarsi con l’applicazione della categoria del dolo eventuale.

Seppure la ricostruzione delle connotazioni assunte dalla volontà dell’imputato sia sempre operazione delicata, è però innegabile che alcuni fatti di omicidio possano essere ascritti, in modo quasi automatico, all’area della colpa.

In questi casi, com’è noto, la volontà di chi ha agito non è indirizzata a porre in essere l’evento di reato ma tale evento si verifica a seguito di un comportamento inappropriato e come conseguenza materiale, pur prevedibile ed evitabile, di tale comportamento.

In questo ambito, la teorica del dolo eventuale funge da figura intermedia fra la colpa e il dolo, nelle ipotesi in cui l’evento, pure non voluto in modo diretto, viene addebitato all’autore della condotta a titolo di dolo per averlo costui indirettamente voluto, a seguito di una convinta accettazione della sua probabile (o anche eventuale, da cui il nome) verificazione.

Nel caso Vannini, l’imputato, dopo aver sparato, non per uccidere ma per ragioni accidentali (evento morte non voluto), ha reiteratamente evitato di chiamare i soccorsi, pur nella prevedibile gravità della situazione, con un atteggiamento di tale pervicacia da rendere evidente – secondo quanto ritenuto dal Giudice di primo grado – di aver accettato pienamente la probabilità della morte. Da qui la trasfigurazione dell’elemento omissivo e colposo iniziale (lo sparo accidentale e l’omissione nella richiesta di soccorsi) in omicidio doloso con dolo eventuale.

Secondo tale giudice – e qui a mente della sentenza d’appello s’annida il suo errore – l’imputato avrebbe portato avanti la sua condotta pur a costo di provocare la morte.

La cartina di tornasole del dolo eventuale sta proprio nell’espressione che abbiamo appena sottolineato, vale a dire “pur a costo” di causare l’evento, locuzione che appartiene alla cosiddetta formula di Frank.

Reinhard Frank è stato un giurista tedesco che alla fine dell’ottocento si è occupato della figura di dolo oggi in discussione, elaborando la formula pratica richiamata dall’attuale giurisprudenza.

Detta formula, ove applicata all’omicidio, nella sua essenza afferma che risponde a titolo di dolo eventuale chi, trovandosi già in una fattispecie in cui sono integrati tutti i requisiti del reato colposo, dimostra nei fatti di aver perseguito un fine che, pur non essendo indirizzato alla morte della vittima, è stato così radicato nella sua determinazione volitiva che egli ha inteso raggiungerlo pure a costo di provocare, quale conseguenza materiale della sua condotta, la morte della vittima medesima.

In altri termini, la morte, pur non essendo direttamente voluta, è prevedibile e sarebbe evitabile astenendosi dalla condotta, ma il soggetto non interrompe l’azione perché tiene più al perseguimento del proprio fine che alla vita altrui, la cui perdita è accettata come “effetto collaterale” del raggiungimento dell’obiettivo agognato.

Dice ancora più chiaramente detta formula che l’imputato, pur se avesse avuto la certezza della morte, non si sarebbe astenuto dal portare a termine la propria azione.

Il Giudice di appello ha applicato la suddetta teorica e si è domandato se l’imputato Ciontoli perseguisse un fine rispetto al quale la morte del povero ragazzo costituisse un effetto collaterale non voluto ma accettato, in quanto funzionale al perseguimento del detto fine.

La risposta negativa è stata piuttosto semplice dal momento che non è difficile capire che la morte del ragazzo non era affatto funzionale al raggiungimento del fine perseguito dall’imputato ma, anzi, ne costituiva la totale e definitiva negazione.

Infatti, l’imputato perseguiva lo scopo di nascondere l’uso improprio delle armi di cui si era reso responsabile, temendo le conseguenze, soprattutto lavorative, della diffusione dell’accaduto.

Rispetto a tale obiettivo egli non poteva che desiderare che la vittima sopravvivesse e probabilmente ha evitato fino all’ultimo di chiamare i soccorsi proprio nella speranza che ciò sarebbe accaduto, pur senza la necessità di un ricovero d’urgenza, il quale avrebbe scatenato, con l’obbligo di referto, le conseguenze temute.

Si tratta di un atteggiamento mentale che sembrerebbe suffragato anche dai risultati dell’autopsia, la quale ha messo in evidenza la forte emorragia interna (emotorace massivo), accompagnata però da scarso sanguinamento esterno.

In sostanza, l’atteggiamento mentale dell’imputato comportava proprio che la morte dovesse essere evitata.

E’ ragionevole ritenere che egli, in quei tragici momenti, si sia trovato davanti alla seguente alternativa: chiamare i soccorsi e farsi scoprire oppure non chiamarli, fidando sulla probabilità che la ferita non fosse mortale.

Se avesse chiamato i soccorsi avrebbe vanificato subito lo scopo cui mirava.

Se si fosse astenuto dal chiamarli e il ragazzo fosse morto, avrebbe vanificato tale scopo in modo ancora più marcato, peggiorando non di poco la propria posizione.

Insomma, se chiamare subito i soccorsi sarebbe stato per lui controproducente, la morte sarebbe stata ancora meno funzionale allo scopo di occultare lo sparo perché con il decesso (ed i conseguenti inevitabili accertamenti) lo sparo sarebbe stato scoperto in tutta la sua evidenza.

In definitiva, secondo la formula di Frank, ove l’imputato avesse avuto la certezza della morte non si sarebbe astenuto dal chiamare i soccorsi e, difatti, a seguito dell’ulteriore aggravamento della condizione del ferito, li ha poi chiamati, seppure con ritardo e modalità gravemente colposi.      

Autore dell’articolo Enrico Leo