La bancarotta per distrazione dell’imprenditore individuale

  Anche se nell’economia contemporanea le imprese individuali costituiscono una percentuale molto minoritaria, si registrano ancora casi di incriminazione di imprenditori individuali a titolo di bancarotta fraudolenta per distrazione.

  Non può dirsi quindi priva di interesse concreto un’attenta disamina di queste ipotesi, le quali possono presentare una certa difficoltà di inquadramento.

  Difficoltà che nasce nel momento in cui le presunte distrazioni vengano ricostruite e rappresentate come passaggi di ricchezza fra i beni aziendali e i beni “personali” del suo titolare.

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Cooperativa edilizia agevolata: quando la bancarotta si nasconde dietro l’atto di assegnazione degli immobili

La prassi degli atti di assegnazione di immobili realizzati da cooperative edilizie in regime convenzionato e agevolato, ha fatto registrare negli ultimi tempi alcuni casi che possono creare seri problemi agli operatori e ai soci.

Riteniamo pertanto opportuno fare menzione, in via esemplificativa, di una delle possibili modalità operative che sembra destare maggiori segnali di allarme.      

Una cooperativa edilizia, che per comodità espositiva chiameremo “Dante”, nome di fantasia, è titolare di un programma edilizio, agevolato da finanziamenti regionali a fondo perduto.

Il programma, a fronte delle erogazioni pubbliche, prevede che i soci assegnatari debbano detenere l’alloggio in locazione per un certo numero di anni, poniamo dieci, e possano diventare proprietari solo alla scadenza del detto termine.     

Essi dovranno corrispondere alla cooperativa un canone mensile e dovranno possedere determinati requisiti patrimoniali e reddituali, sia durante la locazione che al termine della stessa. La permanenza della locazione e dei requisiti legittimanti dovrà essere verificata dalla cooperativa anche – e soprattutto – al termine del periodo obbligatorio di locazione, quale condizione per poter accedere al riscatto che avverrà anch’esso a prezzo agevolato.

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Bancarotta per distrazione: la nuova frontiera richiede che l’atto distrattivo presenti, già al momento della sua esecuzione, una concreta e riconoscibile attitudine a diminuire il patrimonio in modo pericoloso per le ragioni creditorie

Nuova tappa nel tormentato cammino che la Cassazione ha intrapreso da anni, con molti tentennamenti e dietro front, per dare alla bancarotta un profilo più umano, vale a dire più rispettoso del divieto di responsabilità penale oggettiva o di ruolo.

Il problema nasce da quella giurisprudenza, molto diffusa, la quale afferma che qualsiasi atto di diminuzione del patrimonio costituisce bancarotta in caso di successivo fallimento. Anche se tale fallimento intervenga a distanza di molti anni e anche se lo stesso non fosse minimamente prevedibile al momento del compimento dell’azione. Insomma, se vendi a cinque un bene che vale dieci, provochi una diminuzione patrimoniale netta e devi solo sperare di non fallire, poiché se interviene il fallimento, anche a distanza di molti anni e anche per ragioni del tutto indipendenti dalla svendita appena esemplificata, puoi rispondere di bancarotta.

Sul punto il caso Parmalat ha fatto scuola (in senso fortemente negativo per gli imputati), visto che sono state comminate condanne anche per fatti depauperatori posti in essere nel 1992, pur essendo intervenuto il fallimento solo nel 2004.

La sentenza 17819, depositata qualche giorno fa, nel tentativo di farsi carico di questa problematica, esprime i principi che qui di seguito si riassumono.

  1. Nessun problema si pone per quei comportamenti posti in essere in prossimità, cronologica e patrimoniale, dello stato di insolvenza (cosiddetta “zona di rischio penale”) in quanto per essi appare in tutta evidenza l’esistenza e l’accertabilità di un concreto pericolo per le ragioni dei creditori.
  2. Poiché i concetti di prossimità cronologica e patrimoniale sono elastici, occorre valutare attentamente le ipotesi dubbie. Su di esse si incentra l’elaborazione del criterio di discernimento proposto dalla Corte.
  3. L’analisi dell’atto incriminato deve essere condotta con riferimento sia alla sua oggettiva destinazione funzionale, sia alla consapevolezza che di tale destinazione potesse avere il soggetto agente. Per entrambi gli aspetti deve valere il criterio che l’accertamento va condotto “ex ante”, vale a dire sulla base del punto di vista che poteva essere disponibile al momento della sua implementazione e non invece sulla base di quanto sarebbe emerso solo in seguito.
  4. In particolare, ciò che conta è la situazione patrimoniale e finanziaria al momento del compimento dell’atto e non quella frutto, ad esempio, di un successivo tracollo economico non imputabile al soggetto agente.
  5. In sostanza, anche senza arrivare a sposare la teoria che vorrebbe l’esistenza di un vero e proprio nesso di causalità fra l’atto e il dissesto, si arriva oggi a dire che manca un elemento di addebitabilità, quantomeno soggettiva, in quei casi in cui non appaia evidente e non si riesca a dimostrare che al momento dell’atto, ed a causa di questo, si era già venuta a determinare una riconoscibile situazione di pericolo per il soddisfacimento degli interessi dei creditori.
  6. L’introduzione del requisito della congruenza dell’azione rispetto alla messa in pericolo del bene protetto dalla norma, vale a dire del soddisfacimento dei diritti dei creditori, e soprattutto della permanenza di tale congruenza fino alla declaratoria di fallimento, vale ad escludere dall’area di punibilità quelle condotte che, rientrando nel fisiologico azzardo imprenditoriale, apparivano giustificate dal fatto che, in quel momento, il successivo tracollo non era ragionevolmente prevedibile quale conseguenza dell’atto.

Resta da aggiungere che la sentenza appena commentata non solo non risolverà tutte le incertezze ma, ragionevolmente, ne produrrà di ulteriori. Essa, però, ha il pregio di porre l’accento sulla valutazione “ex ante” dell’elemento soggettivo che ha accompagnato l’esecuzione dell’atto.

E’ noto, infatti, che i comportamenti rispetto ai quali occorrere aggiungere chiarezza, a beneficio del sistema economico, sono quelli in cui l’imprenditore assume il rischio di diminuire il patrimonio ma lo fa quale inevitabile conseguenza del mestiere che ha scelto, vale a dire l’assunzione del rischio.

Gli altri, punibili, sono quelli che, a prescindere dal momento in cui vengono realizzati, comportano una coessenziale diminuzione del patrimonio, la quale appare fin da subito priva di qualsiasi giustificazione pertinente al merito imprenditoriale.

Non di rado i giudici confondono i due piani e assumono pronunce che penalizzano il merito manageriale, con un’impropria invasione di campo, la quale tende a giudicare ex post, sul presupposto dell’intervenuto depauperamento, azioni di impresa che presentano il solo difetto di non essere riuscite nel loro intento.

Autore Enrico Leo – aprile 2017

 

 

Il fallito può mentire al curatore? Obbligo di verità, facoltà di mentire e pericolo di autoincriminazione: tre possibili prospettive delle dichiarazioni rese agli organi fallimentari

Il fallito, vale a dire l’imprenditore individuale o il legale rappresentante della società fallita, viene ben presto a contatto con il curatore, il quale gli formula svariate domande. Le principali sono quelle destinate a conoscere la consistenza dell’attivo e la presenza di beni da poter utilmente liquidare, come pure quelle volte a ricostruire le cause del dissesto e quelle destinate ad eventuali chiarimenti di ordine contabile.

In questa fase, il fallito manifesta una comprensibile tendenza a intavolare un buon rapporto con il curatore e non sempre è in grado di rendersi conto della portata delle dichiarazioni che rende a verbale. Soprattutto se non accompagnato e adeguatamente assistito da un professionista con specifica formazione in materia.

Su alcune questioni il fallito non può mentire, in quanto esistono delle norme che gli impongono di dire la verità, stabilendo sanzioni penali per la trasgressione.

Parliamo innanzi tutto dell’art. 87 della legge fallimentare, il cui terzo comma dispone che, in sede di redazione dell’inventario il curatore invita il fallito a dichiarare se vi siano ulteriori attività fino a quel momento non appalesate, avvertendolo delle pene stabilite dall’articolo 220 della stessa legge, per il caso di falsa o omessa dichiarazione.

Su questo aspetto, il fallito non può dunque tenere un comportamento omissivo o reticente, poiché ne conseguirebbe un’incriminazione, a titolo doloso o anche colposo.

In realtà, nella prassi dei tribunali è molto raro incontrare un capo di imputazione di questo tipo, in quanto la mancata indicazione di beni viene sempre assorbita nel ben più grave reato di bancarotta per distrazione e anzi ne costituisce una delle più ricorrenti tecniche incriminatorie.

Ne consegue che è proprio con quest’ultima evenienza che il fallito deve fare i conti, allorchè si tratti di decidere quale debba essere il contenuto delle dichiarazioni da rendere al curatore.

L’imputazione di bancarotta per distrazione, sotto il profilo probatorio, si sviluppa attraverso quella peculiarità del diritto penale fallimentare che viene indicata come un’apparente inversione dell’onere della prova.

E’ la giurisprudenza a sottolineare che, in realtà, l’inversione dell’onere della prova è solo apparente e ciò consente che, in questi casi, vengano comminate condanne nel rispetto della presunzione costituzionale di non colpevolezza che, com’è noto, spetta all’accusa di ribaltare.

In sostanza, la mancata indicazione di un bene e la mancata dimostrazione del motivo per il quale lo stesso non è stato consegnato al curatore, sono comportamenti dai quali può essere desunta la prova della distrazione. E ciò anche in forza del fatto che l’art. 87, comma 3, del R.D. n. 267/1942 assegna al fallito un obbligo di verità circa la destinazione dei beni d’impresa. Ne consegue che, ai fini della prova della distrazione, assume rilievo la condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell’interpello. Non si tratta, dunque, di inversione dell’onere delle prova ma, invece, del rilievo indiziario di un contegno reticente.

Al di fuori del caso appena descritto, che si riferisce in modo specifico al dovere di dire la verità in ordine ai cespiti patrimoniali e alle conseguenze che la reticenza può comportare in ordine alla configurazione del reato di bancarotta per distrazione, esiste però un’area molto ampia di argomenti rispetto alla quale il fallito non ha un obbligo specifico di dire al curatore la verità.

Cosa accade ad esempio se un fallito dichiara falsamente, al curatore e alla polizia giudiziaria, che le scritture contabili sono andate distrutte a seguito di un allagamento ?

Nulla di penalmente rilevante.

Infatti, secondo recente giurisprudenza di legittimità, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) sussiste solo qualora l’atto pubblico che recepisce la dichiarazione del privato, sia ontologicamente preordinato a costituire prova della verità dei fatti narrati. Vale a dire che vi deve essere una norma giuridica che ricolleghi alla dichiarazione la specifica funzione di costituire prova della verità dei fatti che ne costituiscono l’oggetto. Ciò non accade per la dichiarazione resa dal fallito, la quale, per il solo fatto di essere recepita nel verbale del curatore, non diventa prova privilegiata della veridicità degli accadimenti.

In sostanza, ciò che il fallito dichiara, anche se a lui favorevole, non gli può giovare se non nel quadro e alla stregua di qualsiasi altro elemento raccolto nel corso della ricostruzione delle cause del dissesto.

Quello che il fallito dichiara al curatore, quando a lui sfavorevole, può per contro assumere un rilievo molto negativo e ciò sia per la mancanza di qualsiasi garanzia difensiva di tipo processual-penalistico, sia per il valore confessorio che la giurisprudenza gli attribuisce, sia, ancora, per il rilievo documentale che la stessa giurisprudenza attribuisce alla relazione del curatore.

Andiamo con ordine e cerchiamo di comprendere per quale ragione il fallito deve pesare bene ogni parola detta al curatore e deve munirsi di una valida assistenza legale di tipo preventivo.

Innanzi tutto è da dire che, nonostante i tentativi reiterati delle difese e due sentenze della Consulta, la Cassazione è monolitica nel dire che le garanzie difensive del codice di procedura penale non si applicano alle dichiarazioni rese dal fallito agli organi della procedura. In sostanza, non vale in questa fase il principio secondo il quale, quando un soggetto, ascoltato dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti, inizi a dire cose dalle quali emergono indizi di reaità a suo carico, occorre “interrompere il verbale” e invitarlo a munirsi di un difensore.

Le Procure, forti di questa monoliticità, stentano a iscrivere il fallito nel registro degli indagati e preferiscono, prima di farlo, che il curatore gli faccia fare una bella serie di dichiarazioni eventualmente autoincriminanti. Spesso i pubblici ministeri lo fanno addirittura impartendo al curatore specifiche direttive in ordine alle domande da porre. In sostanza utilizzano il curatore come loro “longa manus”, ben sapendo che nessun giudice sarà disposto a dire che il curatore è assimilabile alla polizia giudiziaria. E’ evidente che, in questa situazione, chi inizi a parlare col curatore senza aver prima consultato un avvocato esperto nel settore, o è un santo o è un kamikaze.

Tutto ciò, ove ve ne fosse ancora bisogno, è aggravato dal fatto che la relazione del curatore, la quale recepisce al suo interno la letterale trascrizione degli interrogatori del fallito, viene acquisita, senza indugio e nella sua integralità, al fascicolo del dibattimento penale, alla stregua di un qualsiasi altro documento. Inoltre il curatore nel corso del suo esame testimoniale viene ascoltato “de relato” su quanto a lui dichiarato dal fallito e da lui trasposto nella suddetta relazione, ex art. 33 legge fallimentare.

Fallito avvisato ….

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

 

 

 

 

 

 

 

Bancarotta distrattiva per incongruità del canone di locazione – Cass. Pen. Sez. V 18998 del 6 maggio 2016, relatore Lapalorcia

Un canone di locazione esorbitante rispetto a previgenti condizioni contrattuali come pure ai valori di mercato, pattuito, in qualità di conduttore, da soggetto che di lì a poco viene sottoposto a procedura concorsuale, integra un comportamento depauperatorio e dunque distrattivo.

La prova di ciò, quantomeno nei limiti del sequestro preventivo dei proventi indebitamente percepiti dal terzo locatore, risiede nel fatto che il contratto di locazione incriminato costituiva modifica di un preesistente rapporto in vigore a canone più basso, rapporto modificato, con previsione di un corrispettivo maggiore, poco tempo prima della sottoposizione del conduttore a concordato preventivo.

Alcun rilievo la Corte ha attribuito alla circostanza che il nuovo canone fosse stato “validato” dagli organi della procedura, che nulla avevano eccepito in proposito, proseguendo nella conduzione dell’immobile.

Nel confermare il sequestro, il giudice di legittimità, seguendo una linea consolidata, pur facendo riferimento alla incongruità economica dello scambio, esprime implicitamente una valutazione di mala fede nei confronti del terzo contraente. Svolge altresì un’opera di supplenza rispetto all’inerzia degli organi della procedura concorsuale.