Bancarotta documentale: le varie condotte ipotizzabili e il conseguente discrimine fra bancarotta semplice e fraudolenta

  La fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale viene solitamente trattata nei capi di imputazione con una certa approssimazione, vale a dire con una contestazione che fa genericamente richiamo – in via cumulativa o alternativa – a tutte le ipotesi descritte dall’art. 322, comma 1 lett. b del Codice della Crisi (d.lgs. n. 14 del 2019).

  La norma contempla, in realtà, due ordini di ipotesi: a) l’imprenditore ha sottratto, distrutto o falsificato le scritture contabili al fine di trarne un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori; b) oppure le ha tenute in modo tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio o degli affari.

  Tali ipotesi oggi, a seguito della riforma Cartabia, dovrebbero sperabilmente trovare più precisa indicazione all’interno del capo di imputazione, dal momento che la nuova procedura prevede, in capo al Gup, più pregnanti poteri di controllo sulla precisione e sulla correttezza sostanziale delle contestazioni, affinché l’imputato possa comprendere bene da cosa si deve difendere.

  Una recente pronuncia della Cassazione è intervenuta proprio a ribadire le linee guida per un corretto inquadramento dei casi di bancarotta documentale, anche al fine di distinguerle dal più lieve reato di bancarotta semplice.

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Bancarotta documentale: non è facile evitare la condanna addossando la responsabilità al commercialista

L’imprenditore non deve necessariamente essere esperto in materia tecnico contabile e, dunque, non gli si chiede di essere in grado di tenere, da solo e in modo corretto, la contabilità della sua impresa.

Ciò che la legge chiede all’imprenditore è di vigilare in modo costante e diligente, al fine di controllare che le persone a cui egli abbia affidato la tenuta della contabilità – soggetti forniti di specifiche cognizioni tecniche, sia in qualità di dipendenti che di liberi professionisti – operino in modo corretto.

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