Le linee guida escludono la condanna del sanitario sia con riferimento alla valutazione della diligenza che della perizia

Continua il lavoro interpretativo della Cassazione penale sulla portata della legge Balduzzi, che ha depenalizzato le condotte dei sanitari connotate da colpa lieve, introducendo un inedito nel nostro sistema penale, vale a dire il discrimine, ai fini della punibilità, fra colpa grave e colpa lieve.

Alcuni principi possono dirsi ad oggi abbastanza sedimentati.

In linea generale, la nuova normativa impone che l’azione penale incardinata contro il sanitario si misuri con due fondamentali temi di accertamento: se l’azione del medico si sia sviluppata all’interno di linee guida diagnostico terapeutiche; se la stessa, pur rimanendo in tale perimetro, abbia assunto profili di colpa lieve. In presenza di queste due caratteristiche, il sanitario sarà prosciolto.

Tali verifiche dovranno essere eseguite già dal pubblico ministero in fase di indagini preliminari e, in ipotesi di rinvio a giudizio, il capo di imputazione dovrà contenere l’esplicita menzione dei risultati. Il Pm, cioè, dovrà formulare un’accusa che dimostri sia la divergenza del comportamento concretamente tenuto dalle linee guida, sia il livello della colpa, misurato in riferimento alle specifiche circostanze in cui il medico si è trovato ad operare.

Quanto, in particolare, alla natura delle linee guida, queste sono identificabili come raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate attraverso la disamina sistematica della letteratura scientifica, al fine di aiutare il personale sanitario a decidere le modalita assistenziali piu appropriate, in riferimento a situazioni cliniche tipizzate.

Esse sono per lo più volte a ridurre la soggettivizzazione dei comportamenti clinici con riferimento alla medesima situazione e, pertanto, presuppongono che il sanitario possa trovarsi di fronte ad una scelta fra due alternative diagnostiche o terapeutiche, da lui ritenute astrattamente praticabili, sebbene ciascuna con le proprie controindicazioni o, se si vuole, con il proprio margine di rischio. In simili alternative, il sanitario che vorrà ridurre l’alea legata a possibili conseguenze penali della propria condotta, dovrà scegliere l’opzione suggerita dalla pertinente linea guida. Così facendo egli non eliminerà ogni ulteriore margine di scelta, in quanto dovrà comunque operare secondo scienza e coscienza nel far aderire la raccomandazione alle molteplici specificità del caso concreto. Limiterà però il pericolo di incorrere in responsabilità poichè, nella suddetta discrezionalità di dettaglio, gli verranno scusate eventuali azioni connotate da colpa lieve.

Resta da capire se l’esimente in commento possa operare solo con riferimento ai casi di imperizia o anche a quelli di negligenza, con la precisazione che nella pratica giudiziaria appare piuttosto arduo incontrare vicende che presentino, con riferimento alla condotta concreta oggetto di incriminazione, una netta differenziazione fra i due profili di addebito.

E’ da dire, innanzi tutto, che non può escludersi che le linee guida pongano canoni rispetto ai quali il parametro valutativo della condotta sia quello della diligenza, come, per esempio, il rispetto di una procedura basata sulla pedissequa osservanza di una sequela di azioni di carattere più materiale che clinico. La nuova legge, peraltro, non si riferisce solo ai medici ma anche, ad esempio, al personale infermieristico, categoria spesso onerata di comportamenti da valutare più sotto il profilo della diligenza esecutiva che non sotto quello della corretta soluzione di quesiti di complessa natura intellettuale.

In sostanza, la valutazione della scriminante deve operare sia sul versante della diligenza che su quello della perizia, posto che il giudice, nella verifica della colpa, deve tenere conto unicamente del livello, maggiore o minore, di scostamento della condotta tenuta da quella che ci si poteva attendere sulla base della raccomandazione professionale di riferimento.

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

Il fallito può mentire al curatore? Obbligo di verità, facoltà di mentire e pericolo di autoincriminazione: tre possibili prospettive delle dichiarazioni rese agli organi fallimentari

Il fallito, vale a dire l’imprenditore individuale o il legale rappresentante della società fallita, viene ben presto a contatto con il curatore, il quale gli formula svariate domande. Le principali sono quelle destinate a conoscere la consistenza dell’attivo e la presenza di beni da poter utilmente liquidare, come pure quelle volte a ricostruire le cause del dissesto e quelle destinate ad eventuali chiarimenti di ordine contabile.

In questa fase, il fallito manifesta una comprensibile tendenza a intavolare un buon rapporto con il curatore e non sempre è in grado di rendersi conto della portata delle dichiarazioni che rende a verbale. Soprattutto se non accompagnato e adeguatamente assistito da un professionista con specifica formazione in materia.

Su alcune questioni il fallito non può mentire, in quanto esistono delle norme che gli impongono di dire la verità, stabilendo sanzioni penali per la trasgressione.

Parliamo innanzi tutto dell’art. 87 della legge fallimentare, il cui terzo comma dispone che, in sede di redazione dell’inventario il curatore invita il fallito a dichiarare se vi siano ulteriori attività fino a quel momento non appalesate, avvertendolo delle pene stabilite dall’articolo 220 della stessa legge, per il caso di falsa o omessa dichiarazione.

Su questo aspetto, il fallito non può dunque tenere un comportamento omissivo o reticente, poiché ne conseguirebbe un’incriminazione, a titolo doloso o anche colposo.

In realtà, nella prassi dei tribunali è molto raro incontrare un capo di imputazione di questo tipo, in quanto la mancata indicazione di beni viene sempre assorbita nel ben più grave reato di bancarotta per distrazione e anzi ne costituisce una delle più ricorrenti tecniche incriminatorie.

Ne consegue che è proprio con quest’ultima evenienza che il fallito deve fare i conti, allorchè si tratti di decidere quale debba essere il contenuto delle dichiarazioni da rendere al curatore.

L’imputazione di bancarotta per distrazione, sotto il profilo probatorio, si sviluppa attraverso quella peculiarità del diritto penale fallimentare che viene indicata come un’apparente inversione dell’onere della prova.

E’ la giurisprudenza a sottolineare che, in realtà, l’inversione dell’onere della prova è solo apparente e ciò consente che, in questi casi, vengano comminate condanne nel rispetto della presunzione costituzionale di non colpevolezza che, com’è noto, spetta all’accusa di ribaltare.

In sostanza, la mancata indicazione di un bene e la mancata dimostrazione del motivo per il quale lo stesso non è stato consegnato al curatore, sono comportamenti dai quali può essere desunta la prova della distrazione. E ciò anche in forza del fatto che l’art. 87, comma 3, del R.D. n. 267/1942 assegna al fallito un obbligo di verità circa la destinazione dei beni d’impresa. Ne consegue che, ai fini della prova della distrazione, assume rilievo la condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell’interpello. Non si tratta, dunque, di inversione dell’onere delle prova ma, invece, del rilievo indiziario di un contegno reticente.

Al di fuori del caso appena descritto, che si riferisce in modo specifico al dovere di dire la verità in ordine ai cespiti patrimoniali e alle conseguenze che la reticenza può comportare in ordine alla configurazione del reato di bancarotta per distrazione, esiste però un’area molto ampia di argomenti rispetto alla quale il fallito non ha un obbligo specifico di dire al curatore la verità.

Cosa accade ad esempio se un fallito dichiara falsamente, al curatore e alla polizia giudiziaria, che le scritture contabili sono andate distrutte a seguito di un allagamento ?

Nulla di penalmente rilevante.

Infatti, secondo recente giurisprudenza di legittimità, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) sussiste solo qualora l’atto pubblico che recepisce la dichiarazione del privato, sia ontologicamente preordinato a costituire prova della verità dei fatti narrati. Vale a dire che vi deve essere una norma giuridica che ricolleghi alla dichiarazione la specifica funzione di costituire prova della verità dei fatti che ne costituiscono l’oggetto. Ciò non accade per la dichiarazione resa dal fallito, la quale, per il solo fatto di essere recepita nel verbale del curatore, non diventa prova privilegiata della veridicità degli accadimenti.

In sostanza, ciò che il fallito dichiara, anche se a lui favorevole, non gli può giovare se non nel quadro e alla stregua di qualsiasi altro elemento raccolto nel corso della ricostruzione delle cause del dissesto.

Quello che il fallito dichiara al curatore, quando a lui sfavorevole, può per contro assumere un rilievo molto negativo e ciò sia per la mancanza di qualsiasi garanzia difensiva di tipo processual-penalistico, sia per il valore confessorio che la giurisprudenza gli attribuisce, sia, ancora, per il rilievo documentale che la stessa giurisprudenza attribuisce alla relazione del curatore.

Andiamo con ordine e cerchiamo di comprendere per quale ragione il fallito deve pesare bene ogni parola detta al curatore e deve munirsi di una valida assistenza legale di tipo preventivo.

Innanzi tutto è da dire che, nonostante i tentativi reiterati delle difese e due sentenze della Consulta, la Cassazione è monolitica nel dire che le garanzie difensive del codice di procedura penale non si applicano alle dichiarazioni rese dal fallito agli organi della procedura. In sostanza, non vale in questa fase il principio secondo il quale, quando un soggetto, ascoltato dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti, inizi a dire cose dalle quali emergono indizi di reaità a suo carico, occorre “interrompere il verbale” e invitarlo a munirsi di un difensore.

Le Procure, forti di questa monoliticità, stentano a iscrivere il fallito nel registro degli indagati e preferiscono, prima di farlo, che il curatore gli faccia fare una bella serie di dichiarazioni eventualmente autoincriminanti. Spesso i pubblici ministeri lo fanno addirittura impartendo al curatore specifiche direttive in ordine alle domande da porre. In sostanza utilizzano il curatore come loro “longa manus”, ben sapendo che nessun giudice sarà disposto a dire che il curatore è assimilabile alla polizia giudiziaria. E’ evidente che, in questa situazione, chi inizi a parlare col curatore senza aver prima consultato un avvocato esperto nel settore, o è un santo o è un kamikaze.

Tutto ciò, ove ve ne fosse ancora bisogno, è aggravato dal fatto che la relazione del curatore, la quale recepisce al suo interno la letterale trascrizione degli interrogatori del fallito, viene acquisita, senza indugio e nella sua integralità, al fascicolo del dibattimento penale, alla stregua di un qualsiasi altro documento. Inoltre il curatore nel corso del suo esame testimoniale viene ascoltato “de relato” su quanto a lui dichiarato dal fallito e da lui trasposto nella suddetta relazione, ex art. 33 legge fallimentare.

Fallito avvisato ….

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Il giudice deve guardare negli occhi il testimone

Quando nel corso del dibattimento penale cambia la persona fisica che compone l’organo giudicante, i testi devono essere riascoltati dal nuovo giudice.

   Si è fatto un gran parlare della necessità, a presunti fini di economia processuale, di evitare di riascoltare i testimoni davanti al nuovo organo giudicante, qualora mutino la persona o le persone fisiche che lo compongono.

   Si assiste spesso a manifestazioni di fastidio da parte dei giudici quando gli avvocati, in simili ipotesi, chiedono di riascoltare i testimoni.

  Si assiste spesso anche a prassi minimizzatrici del diritto in questione, nelle quali il giudice si limita a chiedere al teste riconvocato se conferma la dichiarazione resa davanti al precedente giudice.

  Come se si trattasse di espletare un rito privo di senso pratico.

  Come se il nuovo giudice non avesse alcun interesse ad adempiere con diligenza a quel dovere morale e professionale che gli impone di guardare il testimone negli occhi.

  Come se il principio del libero convincimento nella formazione del giudizio, così di condanna, come di assoluzione, non gli imponesse di rendersi conto in via diretta dell’attendibilità della fonte.

 Come se il linguaggio corporeo e tutto il corredo di sfumature che accompagnano le parole del dichiarante non avessero alcun valore comunicativo.

  Per fortuna oggi interviene la sentenza delle Sezioni Unite penali (27620/2016), la quale, con grande autorevolezza, riporta al centro del processo penale alcuni concetti basilari, tratti dalla logica del rito accusatorio e dalla giurisprudenza europea sul diritto inalienabile ad un processo equo: oralità della prova, immediatezza della sua formazione davanti al giudice chiamato a decidere e dialettica delle parti nella sua formazione.

  Ecco le parole della sentenza in punto di rapporto diretto fra giudice e testimone:

Dal lato del giudice, la percezione diretta è il presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa. L’apporto informativo che deriva dalla diretta percezione della prova orale è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento sull’apprezzamento degli elementi di prova …

  Tale pronuncia utilizza poi proprio il canone dell’ immediatezza della formazione della prova dichiarativa davanti al giudice chiamato a decidere per stabilire che, qualora il giudice di appello intenda ribaltare una sentenza assolutoria emessa in primo grado, egli deve riascoltare i testimoni ogniqualvolta intenda fornire una diversa e antitetica interpretazione di quanto dagli stessi narrato.

  Attenzione quindi a pretendere la rinnovazione dell’esame dei testimoni, la quale peraltro deve essere disposta anche d’ufficio, quando la sentenza che ha assolto l’imputato venga appellata dal Pubblico Ministero o dalla parte civile, invocando una diversa interpretazione delle risultanze delle prove orali.

Avv. Enrico Leo – tutti i diritti riservati

Come funziona la consulenza legale on line

Avete mai chiesto una consulenza legale on line ?

   Quale è stata la vostra esperienza e, in particolare, il livello di gradimento del risultato ?

   Pensate di essere in grado di formulare in modo corretto e comprensibile il vostro quesito legale attraverso un form a composizione libera, o preferireste avere un supporto automatizzato che vi indirizzi verso la formulazione più pertinente del vostro interrogativo ?

   Se volete dire la vostra, compilate il form in coda all’articolo.

 

   Sempre più spesso si ricorre alla locuzione consulenza on line per indicare un fenomeno che va al di là di una semplice email a contenuto consulenziale, inviata da un legale al proprio cliente.

  Quest’ultima, infatti, è una forma di espletamento dell’incarico consulenziale che si presenta innovativa solo per il veicolo utilizzato – la email, appunto – ma che non differisce dalla consulenza che, in passato, poteva essere veicolata a mezzo missiva postale.

   In questa modalità, il “vecchio” sta nel fatto che la domanda, vale a dire il quesito consulenziale, viene posta all’avvocato in modo tradizionale: mi reco presso lo studio, lo chiamo per telefono, gli scrivo una email e, attraverso questi mezzi di comunicazione, pongo il quesito.

   L’aspetto positivo di questo modo di procedere è molto evidente: durante la fase di proposizione della richiesta, l’interazione dialettica che intercorre fra avvocato e cliente costituisce, ad un tempo, il metodo per far comprendere al legale quale sia la reale necessità di tutela ed il metodo attraverso il quale lo stesso cliente arriva a capire di quale approfondimento egli abbia davvero bisogno.

   La vera consulenza on line presuppone, invece, che la proposizione della domanda non segua il canale tradizionale ma sia formulata con metodo automatizzato.

   Dove l’aggettivo “automatizzato” vuol significare che il rapporto fra avvocato e cliente si svilupperà attraverso apposite pagine web, contenenti alcuni form da compilare on line e, nel migliore dei casi, anche un percorso guidato per aiutare nella formulazione corretta della domanda. Nessun rapporto diretto fra legale e cliente. Nessuna possibilità di uscire dal percorso consulenziale preconfigurato e di porgere richieste diverse dalla consulenza prescelta e prepagata.

   A meno che, ovviamente, lo studio legale titolare della piattaforma non abbia concepito, come molto spesso accade, la proposta di consulenza on line quale “corsia di invito all’entrata”, per acquisire incarichi di consulenza e assistenza da svolgere in modo tradizionale e secondo le tariffe tradizionali.

   Quest’ultimo aspetto, vale a dire quello dei costi, è la vera cartina di tornasole della consulenza on line genuina, la quale, per avere una qualche utilità, deve poggiare su due presupposti di cui i potenziali clienti dovrebbero essere ben consci prima di accedervi.

   Il primo è che vi si deve far ricorso solo quando ci si renda conto che la risposta richiesta sia suscettibile di fornire concreta soddisfazione alle esigenze del richiedente. In sostanza, deve trattarsi di una questione abbastanza semplice, in rapporto alla quale la risposta costituisca già un livello definito di tutela. In caso contrario è meglio far ricorso fin da subito a un legale in carne e ossa.

   Il secondo è che la consulenza on line può avere un costo chiaro, predeterminato e soprattutto contenuto, solo grazie alle modalità di svolgimento dell’incarico e, in particolare, all’ambito del parere fornito, il quale rimane incanalato all’interno di confini ben delineati.

   E’ vivamente sconsigliato perciò richiedere una consulenza on line ed aspettarsi o, peggio, pretendere, compresa nel prezzo, una consulenza tradizionale.

   Esiste infine – ma qui vi si fa cenno solo per ragioni di completezza – un terzo genere di consulenza, vale a dire quella digitale. Potrebbe sembrare fantascienza ma esistono già oggi alcuni sistemi informativi di tipo legale, dotati di sofisticatissimi algoritmi, in grado di rispondere a un quesito legale facendo unicamente ricorso alla loro intelligenza artificiale. Questi strumenti, per il momento, non sono autorizzati dalla legge a fornire consulenza legale in modo diretto.

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Fare rete fra avvocato e commercialista per offrire ai rispettivi clienti un servizio migliore

   Studio Legale Leo si occupa di diritto penale dell’economia e, in particolare, di bancarotta, reati tributari, reati societari, con riferimento ai profili di responsabilità di imprenditori, amministratori, sindaci e revisori.

   Si occupa altresì della tutela del patrimonio individuale e aziendale, con riferimento alle varie ipotesi di sequestro penale e di successiva confisca.

   Il diritto penale dell’economia si colloca al confine fra la  professionalità dell’avvocato e quella del commercialista, perché prende in esame condotte che trovano la loro origine e la loro giustificazione nelle scienze economiche, contabili e aziendalistiche.

   Ne deriva la necessità di un costante scambio di valutazioni fra le due figure professionali, quale modulo imprescindibile attraverso il quale gestire correttamente i rischi penali, nella fase dell’eventuale difesa processuale ma, ancora prima, in quella del compimento delle scelte gestionali.

   Se sei un commercialista o un consulente e sei interessato a uno scambio informale di valutazioni su un caso concreto, puoi rivolgerti a noi.

  Ti risponderemo sulla base della nostra esperienza, contando di poter beneficiare, nello stesso tempo, del tuo punto di vista. Il guadagno reciproco sarà quello di potenziare la rete delle nostre relazioni professionali e di incrementare la nostra competenza interdisciplinare.

    Se condividi l’idea, compila il form per parlare del tuo caso o anche solo per darci una tua valutazione.

     Con il tuo consenso, ove di interesse diffuso, pubblicheremo nel nostro blog la tematica affrontata, citando ovviamente l’apporto fornito dal tuo studio. Lo stesso potrai fare tu, a beneficio dei rispettivi clienti, attuali o potenziali.

   Cordialmente

Studio Legale Leo

Se il Fisco non prova l’accordo fraudolento, non può rivalersi sull’acquirente ma attenzione alla forza delle presunzioni

La classica frode Iva (in alcuni casi, frode carosello), nonostante alcune varianti di volta in volta riscontrabili, riproduce essenzialmente uno schema consueto.

Esemplificando, fra l’azienda che produce un bene e che lo vende (o lo esporta in Italia) e l’azienda che lo acquista, si inserisce un terzo soggetto che, sfruttando alcuni meccanismi previsti dalla norma tributaria, si interpone fittiziamente, con il preciso proposito di non riversare all’erario l’Iva versatagli dall’acquirente.

Si parla in proposito di operazioni soggettivamente inesistenti, proprio per la ragione che l’operazione di per sé esiste ma, nella sostanza economica, il vero venditore è colui che ha prodotto il bene e non quello che figura sulla fattura ricevuta dall’acquirente, soggetto, appunto, fittiziamente interposto.

Poiché, com’è ovvio, il soggetto interposto non ha nulla da perdere, l’Erario cerca sempre di rivalersi a carico dell’acquirente, recuperando a tassazione l’imposta detratta, e per fare ciò deve necessariamente postulare un accordo fraudolento fra quest’ultimo e l’interposto. Accordo che, quando esiste, prevede una divisione fra i due del beneficio dell’Iva non versata, in modo che l’acquirente detragga l’Iva pagata e benefici di un ritorno corrispondente alla quota parte di quella non versata dal venditore interposto.

L’accordo fraudolento, però, deve essere non solo dedotto ma anche provato.

A tal fine, solitamente, l’Ufficio si dilunga non poco nell’allegazione di svariati elementi atti a dimostrare la natura fittizia e fraudolenta del soggetto interposto, che com’è ampiamente noto, viene definito “cartiera”, in quanto, lungi dall’essere un vero imprenditore, svolge come unica attività quella di stampare false fatture.

Quello che spesso manca nelle architetture a sostegno dell’avviso di accertamento è, invece, la prova della consapevole partecipazione alla frode da parte del contribuente.

Ma attenzione, si tratta di una prova che, per consolidata giurisprudenza, può essere fornita anche per presunzioni, vale a dire attraverso l’allegazione di concludenti indizi dai quali si possa desumere la conoscenza o almeno la conoscibilità in capo all’acquirente dello schema fraudolento.

E l’enfasi va necessariamente posta su ciò che costituisce la frontiera più arretrata della difesa del contribuente: la conoscibilità, detta anche negligenza negoziale.

In sostanza, di fronte alla prova, fornita dall’Ufficio, di una serie di elementi dai quali si possa desumere che un imprenditore di media avvedutezza avrebbe compreso la reale natura e le reali intenzioni del venditore a cui egli stava per pagare il corrispettivo, comprensivo dell’Iva, sarà onere dell’acquirente fornire la prova contraria e cioè la prova della propria buona fede.

A tal fine non saranno sufficienti le pur regolari scritturazioni contabili, contenenti l’annotazione dei pagamenti. Meglio sarà allegare fatti più concreti, come ad esempio, la prova concreta dell’intervenuto pagamento delle forniture, con conseguente addebito bancario, a seconda del mezzo prescelto, il quale, inutile dirlo, dovrà essere tracciabile.

Autore Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Ho prenotato un immobile e ho già pagato buona parte del prezzo ma la cooperativa sta per fallire

  Chi si trova in una situazione di questo tipo deve agire con tempestività e decisione.

  Se ha prenotato una “prima casa” – vale a dire un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale per sè o suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo, destinato a costituire la sede principale della propria attività di impresa – e ha trascritto il preliminare, non dovrebbe correre grossi rischi.

  In ogni caso, sia per la prima che a maggior ragione per la c.d. “seconda casa”, la manovra che lo pone ancor di più al riparo da qualsiasi sorpresa, è la trascrizione di una domanda giudiziale ex art. 2932 cc., prima che venga iscritta la sentenza di fallimento.

  Infatti, in mancanza di detta prioritaria trascrizione, il curatore (o commissario giudiziale nel caso di liquidazione coatta amministrativa) può sciogliersi dal vincolo preliminare, vendere l’immobile e distribuire ai creditori il ricavato.

  In questo caso, purtroppo, l’assegnatario poco solerte non solo perderà la casa ma si vedrà sorpassato dal credito vantato dalla banca, il quale sarà sempre garantito da ipoteca fondiaria e, come tale, prioritario nella distribuzione.

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Responsabilità medica: sull’ambito di operatività della scriminante della colpa lieve – Giurisprudenza penale

Cassazione Penale, Sez. IV, 6 giugno 2016 (ud. 11 maggio 2016), n. 23283 Presidente Blaiotta, Relatore Montagni, P.G. Cedrangolo Segnaliamo, in tema di responsabilità medica, la pronuncia numero 23283 del 6 giugno 2016 con cui la quarta sezione penale della Cassazione ha fatto il punto sulla rilevanza delle linee guida a seguito della riforma di cui …

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Riciclaggio e autoriciclaggio

  1. Definizioni

Viene incriminato per riciclaggio il soggetto che si occupa di nascondere la provenienza illecita del denaro o degli altri beni ricavati da un reato, alla cui commissione non ha partecipato, creando, attraverso una trasformazione e  un reimpiego di tali beni, l’apparenza che la loro origine sia lecita.

Viene incriminato per autoriciclaggio il soggetto che, dopo aver commesso un reato, si occupa di nascondere la provenienza illecita del denaro o degli altri beni ricavati da tale illecito, creando, attraverso una trasformazione e  un reimpiego di tali beni, l’apparenza che la loro origine sia lecita.

  1. Le caratteristiche dell’autoriciclaggio

L’autoriciclaggio è punito solo se la trasformazione e  il reimpiego dei beni ricavati dal reato, vengono attuati mediante inserimento degli stessi in attività di tipo economico, finanziario, imprenditoriale o speculativo. Non si è puniti, dunque, se si utilizzano i detti proventi per attività di mera fruizione o godimento personale.

In sostanza, non è punito chi si limita ad utilizzare, spendere, consumare o trasformare in beni di uso personale ciò che ha ricavato dalla commissione del reato, ma solo chi, in modo da nasconderne la provenienza, immette tale ricavo illecito in un ciclo economico/produttivo.

La differenza che si profila è, dunque, fra consumo personale e reinvestimento produttivo.

  1. L’accertamento del riciclaggio

L’attività di riciclaggio, per essere punibile, deve consistere in un’azione che sia concretamente idonea a rendere opaca la provenienza illecita del denaro o degli altri beni.

Altrimenti l’attività dovrà essere considerata innocua, perché evidentemente commessa in buona fede.

E’ proprio intorno alla verifica di questo requisito che ruotano le principali argomentazioni difensive di chi sia indagato per tale reato. La disamina della casistica ragionevolmente ipotizzabile assume in proposito una grande importanza.

In tema di verifica della buona fede, che, in qualche modo, costituisce il risvolto soggettivo della carenza di idoneità dell’azione, è bene considerare che si è puniti per riciclaggio anche a titolo di dolo eventuale, vale a dire quando, pur non essendovi prova di un’aperta intenzione di commettere il fatto, risulta che il soggetto non abbia desistito dall’attività, pur in presenza di chiari segnali in base ai quali una persona normale avrebbe seriamente sospettato  della provenienza illecita dei beni.

  1. Autoriciclaggio e reati fiscali

Uno dei principali banchi di prova dell’autoriciclaggio sarà certamente costituito dal reimpiego del ricavato di reati fiscali, in quanto non è infrequente che quanto sottratto al fisco sia poi reimpiegato nella stessa azienda.

E’ da ritenere pertanto che si tratti di uno strumento volto a perseguire con maggiore efficacia l’evasione penalmente rilevante, attraverso una ricostruzione dell’origine delle somme impiegate nel processo produttivo.

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Bancarotta distrattiva per incongruità del canone di locazione – Cass. Pen. Sez. V 18998 del 6 maggio 2016, relatore Lapalorcia

Un canone di locazione esorbitante rispetto a previgenti condizioni contrattuali come pure ai valori di mercato, pattuito, in qualità di conduttore, da soggetto che di lì a poco viene sottoposto a procedura concorsuale, integra un comportamento depauperatorio e dunque distrattivo.

La prova di ciò, quantomeno nei limiti del sequestro preventivo dei proventi indebitamente percepiti dal terzo locatore, risiede nel fatto che il contratto di locazione incriminato costituiva modifica di un preesistente rapporto in vigore a canone più basso, rapporto modificato, con previsione di un corrispettivo maggiore, poco tempo prima della sottoposizione del conduttore a concordato preventivo.

Alcun rilievo la Corte ha attribuito alla circostanza che il nuovo canone fosse stato “validato” dagli organi della procedura, che nulla avevano eccepito in proposito, proseguendo nella conduzione dell’immobile.

Nel confermare il sequestro, il giudice di legittimità, seguendo una linea consolidata, pur facendo riferimento alla incongruità economica dello scambio, esprime implicitamente una valutazione di mala fede nei confronti del terzo contraente. Svolge altresì un’opera di supplenza rispetto all’inerzia degli organi della procedura concorsuale.