Se il Fisco non prova l’accordo fraudolento, non può rivalersi sull’acquirente ma attenzione alla forza delle presunzioni

La classica frode Iva (in alcuni casi, frode carosello), nonostante alcune varianti di volta in volta riscontrabili, riproduce essenzialmente uno schema consueto.

Esemplificando, fra l’azienda che produce un bene e che lo vende (o lo esporta in Italia) e l’azienda che lo acquista, si inserisce un terzo soggetto che, sfruttando alcuni meccanismi previsti dalla norma tributaria, si interpone fittiziamente, con il preciso proposito di non riversare all’erario l’Iva versatagli dall’acquirente.

Si parla in proposito di operazioni soggettivamente inesistenti, proprio per la ragione che l’operazione di per sé esiste ma, nella sostanza economica, il vero venditore è colui che ha prodotto il bene e non quello che figura sulla fattura ricevuta dall’acquirente, soggetto, appunto, fittiziamente interposto.

Poiché, com’è ovvio, il soggetto interposto non ha nulla da perdere, l’Erario cerca sempre di rivalersi a carico dell’acquirente, recuperando a tassazione l’imposta detratta, e per fare ciò deve necessariamente postulare un accordo fraudolento fra quest’ultimo e l’interposto. Accordo che, quando esiste, prevede una divisione fra i due del beneficio dell’Iva non versata, in modo che l’acquirente detragga l’Iva pagata e benefici di un ritorno corrispondente alla quota parte di quella non versata dal venditore interposto.

L’accordo fraudolento, però, deve essere non solo dedotto ma anche provato.

A tal fine, solitamente, l’Ufficio si dilunga non poco nell’allegazione di svariati elementi atti a dimostrare la natura fittizia e fraudolenta del soggetto interposto, che com’è ampiamente noto, viene definito “cartiera”, in quanto, lungi dall’essere un vero imprenditore, svolge come unica attività quella di stampare false fatture.

Quello che spesso manca nelle architetture a sostegno dell’avviso di accertamento è, invece, la prova della consapevole partecipazione alla frode da parte del contribuente.

Ma attenzione, si tratta di una prova che, per consolidata giurisprudenza, può essere fornita anche per presunzioni, vale a dire attraverso l’allegazione di concludenti indizi dai quali si possa desumere la conoscenza o almeno la conoscibilità in capo all’acquirente dello schema fraudolento.

E l’enfasi va necessariamente posta su ciò che costituisce la frontiera più arretrata della difesa del contribuente: la conoscibilità, detta anche negligenza negoziale.

In sostanza, di fronte alla prova, fornita dall’Ufficio, di una serie di elementi dai quali si possa desumere che un imprenditore di media avvedutezza avrebbe compreso la reale natura e le reali intenzioni del venditore a cui egli stava per pagare il corrispettivo, comprensivo dell’Iva, sarà onere dell’acquirente fornire la prova contraria e cioè la prova della propria buona fede.

A tal fine non saranno sufficienti le pur regolari scritturazioni contabili, contenenti l’annotazione dei pagamenti. Meglio sarà allegare fatti più concreti, come ad esempio, la prova concreta dell’intervenuto pagamento delle forniture, con conseguente addebito bancario, a seconda del mezzo prescelto, il quale, inutile dirlo, dovrà essere tracciabile.

Autore Enrico Leo. Tutti i diritti riservati